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Intervista a Marzia Migliora | Velme, Ca’ Rezzonico

English text below Con Velme Marzia Migliora esplora, attraverso cinque installazioni site specific, la storia sociale e culturale dello storico Palazzo veneziano Ca’ Rezzonico, cercando di : “mostrare ciò che è nascosto e far riaffiorare ciò che è sommerso”. Il progetto – a cura di Beatrice Merz – è connotato da modalità espressive ricorrenti nella produzione dell’artista: […]

Marzia Migliora La fabbrica illuminata, 2017  goldsmiths' workbenches, blocks of rock-salt, lights  cm 240 x 120 x 1470
 Private collection, courtesy Fondazione Merz  Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora La fabbrica illuminata, 2017 goldsmiths’ workbenches, blocks of rock-salt, lights cm 240 x 120 x 1470
 Private collection, courtesy Fondazione Merz Photo Renato Ghiazza

English text below

Con Velme Marzia Migliora esplora, attraverso cinque installazioni site specific, la storia sociale e culturale dello storico Palazzo veneziano Ca’ Rezzonico, cercando di : “mostrare ciò che è nascosto e far riaffiorare ciò che è sommerso”.
Il progetto – a cura di Beatrice Merz – è connotato da modalità espressive ricorrenti nella produzione dell’artista: la volontà di mostrare ciò che è nascosto e far riaffiorare ciò che è sommerso, la relazione con lo spazio e la storia dei luoghi. Marzia Migliora intende fare emergere le contraddizioni e i ripetuti sfruttamenti – delle risorse naturali, di quelle umane e del lavoro – attraverso le suggestioni che giungono dalla storia della città lagunare e dalle opere custodite a Ca’ Rezzonico, mettendole in dialogo e in contrasto con quelle da lei realizzate.
La mostra – promossa da Fondazione Merz e MUVE, Fondazione Musei Civici di Venezia  – è visibile fino al 26 novembre 2017.

Segue l’intervista con l’artista —

Simona Squadrito: La mostra Velme è un progetto estremamente ricco che prende forma attraverso cinque installazioni, collocate nello storico Palazzo Ca’ Rezzonico, uno tra gli edifici veneziani più rappresentativi, ricco di una collezione di opere straordinarie, con cui hai avuto la possibilità di rapportarti. Il titolo della mostra funge da collante tra le diverse riflessioni e tematiche che stanno alla base del progetto espositivo. La Velma in dialetto Veneziano significa melma, e sta ad indicare porzione di fondale lagunare poco profondo, che emerge in occasione delle basse maree. Che cosa tra le cose sommerse vorresti fare emergere con questo progetto?

Marzia Migliora: Le velme sono luogo di relazione tra acqua e terra, il titolo della mostra è oggetto simbolico del forte legame tra l’ambiente lagunare, la terra, e le specie che vi abitano. Questo titolo traccia anche la rotta della mia ricerca.
Venezia fonda le sue radici sott’acqua in uno strato melmoso di argilla e sabbia, non visibile. Mi sono domandata cosa si celasse là sotto e ho cercato di condurre la mia ricerca rendendo visibili delle costanti nella storia, riportandole in superficie, così come le velme – la cui presenza è perenne ma talvolta nascosta – che si offrono al nostro sguardo solo in condizione di bassa marea. Mi ha condotta in questo viaggio di scoperta al buio dei fondali la storia narrata dall’ambiente in cui ho lavorato: Cà Rezzonico. La definizione del vocabolario Treccani riporta: vèlma s. f. [voce venez., alteraz. di melma]. – Lo stesso che laguna viva, la laguna cioè in cui si avverte la marea, che mantiene viva la circolazione delle acque.
I fondali, sono specchio del nostro comportamento quali abitanti dell’elemento terra.
Le velme, così come l’intero ecosistema lagunare veneziano, sono fortemente a rischio a causa del degrado morfologico e dell’erosione dei fondali marini, determinati dalla scarsa consapevolezza e dalle continue violazioni perpetrate dall’uomo: la circolazione di grandi navi, l’inquinamento, la pesca condotta con metodi distruttivi dei fondali, il moto ondoso generato da imbarcazioni medio piccole con velocità eccessiva. Queste cause forse sono inscrivibili sotto un comune denominatore: lo sfruttamento economico delle risorse.

SS: Con l’installazione Taci, anzi parla, hai estrapolato dai dipinti del Longhi la Moretta: una mascherina ovale femminile tipica del Settecento, che non è legata al teatro ma alla vita quotidiana della città di Venezia. Infatti, la Moretta,insieme alla Baùtta, costituisce un genere di maschera che non definisce “tipi”, “ruoli” o “caratteri” ma che, al contrario, nasconde le reali fattezze dell’individuo uniformandolo in una sorta di democrazie di “larve” in cui non si distingue più nessuna gerarchia di ordine sociale o differenza di età. Alla luce della storia di questa maschera che significato vuole trasmettere l’installazione Taci, anzi parla ?

MM: La Moréta o Serveta, è una maschera che ha un carattere fortemente gerarchizzato di genere, essendo a uso esclusivamente femminile; non è neanche definibile come democratica, la democratizzazione dovrebbe rispondere anche alla libertà di parola, che nell’indossare questa maschera certo non è agevolata. La Moréta è una maschera costituita da un ovale nero con i buchi solamente in corrispondenza degli occhi. Si teneva su senza fettucce, bisognava stringere tra i denti una mordacchia, rientrante all’altezza della bocca. In questo modo le donne che la indossavano erano costrette a tacere. Questa costrizione al silenzio deputata al genere femminile, credo sia un retaggio che dura da troppo tempo.
Il titolo: Taci, anzi parla, cita l’omonimo libro di Claudia Lonzi e nasce per una provocazione, che non ho potuto fare a meno di cogliere in toto. Ho addirittura realizzato la maschera dal calco del mio volto.
L’opera vuole svelare quello che nei dipinti non si può vedere: cosa stringevano tra i denti alcune dame settecentesche ritratte sia nel Il ridotto, di Francesco Guardi, sia in Il Rinoceronte di Pietro Longhi? La Moréta viene estratta dai due capolavori in collezione e mostrata in modo da poterne osservare anche il retro: essa viene rivelata nell’azione di uno spostamento. Ho scelto di installare l’opera nel boudoir del museo, sollecitata della parola francese boudoir che deriva dalla parola bouder, letteralmente: mettere il broncio.

SS:  L’installazione quis contra nos, è un’altra opera carica di significati storici, sociali, politici e letterali. Il motto è tratto da una frase di san Paolo: “Si Deus pro nobis, quis contra nos”, e significa letteralmente, se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?
In seguito questo motto fu usato da diversi personaggi, diventando celebre con D’Annunzio.  La tua operazione è quella di collegare il motto allo stemma della famiglia Rezzonico, che riporta la scritta in lettere dorate: Si Deus pro nobis, caricando l’opera di un senso strettamente politico. Vuoi raccontarci qualcosa di questo lavoro?

MM: Il motto Rezzonico omette parte della frase originale di san Paolo: quis contra nos.
Nel corso della storia ho riscontrato come questa stessa frase, Se Dio è con noi, sia stata pronunciata e utilizzata in diverse occasioni a scopo strumentale, da grandi dittatori e uomini di potere del nostro tempo: da Hitler a Bin Laden a George Bush, come giustificazione di atti criminali, stermini di massa e guerre.
Attraverso il mio intervento, la citazione originale, viene completata e rivelata ma spostata per andare a risiedere sugli specchi della collezione, per un dialogo a tu per tu tra il fruitore e la storia che ci riguarda e di cui facciamo parte, sia singolarmente, sia collettivamente.

SS:  Mondo Novo è il titolo di un’altra istallazione presente in mostra, dal titolo è evidente come tu ti sia voluta ricollegare al bellissimo affresco, da titolo omonimo, di Giandomenico Tiepolo. L’affresco del Tiepolo appare a noi contemporanei di un’attualità disarmante. La Venezia del 1791 è una città in declino, infatti la repubblica ha perso definitivamente il predominio sul Mediterraneo, vivendo un inesorabile tramonto. L’opera carica di inquietudine, riporta a noi contemporanei la consapevolezza dell’inevitabile tramonto dell’occidente. È questo il senso dell’opera, oppure vuoi trasmettere la speranza che un mondo nuovo, alla finis historiae dell’occidente è ancora possibile? 

MM: Il Tiepolo, rappresenta nell’affresco del 1791 l’attesa e l’illusione di un mondo nuovo, alimentata dai moti della Rivoluzione Francese (1789). Una folla, rappresentata di spalle, è intrattenuta da un imbonitore nell’attesa di poter assistere al mondo nuovo, sistema di visione pre-cinema, celato all’interno di un casotto di legno. L’opera che ho realizzato è un intervento nella sala delle feste sul corpus scultoreo degli Etiopi porta vaso (mori) di Andrea Brustolon. La straordinaria bellezza delle sculture lignee e l’esecuzione formale eccelsa è unita alla crudezza efferata dei soggetti rappresentati nel loro ruolo di schiavi perenni, incatenati a un destino di portatori-lavoratori forzati.
Normalmente nella collezione queste sculture sono allineate alla parete, con il retro rivolto contro il muro, come oggetti d’arredo. Ne ho modificato la posizione e quella da me data è composta da: una rotazione di 180° e uno spostamento di un metro di distanza dal muro. Come se i mori avessero preso posizione, compiendo un passo, ma anche un passo falso, rispetto l’ubicazione usuale, la rotazione delle sculture cita la postura del pubblico nel Il mondo novo del Tiepolo.
Ho evidenziato questo tragitto con un’asta metrica in uso per la fotografia documentaria di reperti archeologici, posta a terra e sostituito il vasellame cinese portato solitamente dai mori, con un pezzo di salgemma.
Oggi come nel 1791 è ancora viva la prospettiva di Un mondo novo, in cui siano superate, tra le altre, le problematiche legate alla schiavitù contemporanea, in determinati settori produttivi con pratiche di lavoro clandestino che evadono controlli e leggi favorendo lo sfruttamento dei lavoratori.

SS:  La fabbrica illuminata è un’istallazione che fa riflettere, in modo ancora più incisivo,  su uno dei temi che affronti con questa mostra, ovvero, quello relativo allo sfruttamento delle risorse naturali e alla forza lavoro impiegata nella trasformazione della salgemma. Vuoi raccontarci qualcosa in merito a quest’opera? 

Marzia Migliora: Il titolo dell’installazione: La fabbrica illuminata, oltre a essere una citazione dell’omonima composizione di Luigi Nono, ha una forte connessione anche con i blocchi di salgemma presenti nell’installazione provenienti dalla miniera Italkali a Realmonte (AG). Il salgemma vedrà la luce per la prima volta dopo sei milioni di anni: lo sfruttamento di questa risorsa naturale porta forzatamente alla luce un minerale destinato per sua natura al buio perenne.
Il pubblico entrerà in una grande sala al primo piano in cui sono presenti elementi di un laboratorio orafo, cinque banchi di lavoro da orafo e utensili, illuminati da neon. Sul piano superiore di ogni banco poggia un grande blocco di salgemma grezzo, come se fosse in attesa di essere lavorato-trasformato. Il sale è sintesi del mare, detto anche oro bianco. L’installazione rimanda allo sfruttamento delle risorse naturali e alla forza lavoro necessaria alla trasformazione delle stesse in merce e lucro. Ne Gli Alchimisti di Alberto Longhi, sito al secondo piano del museo, tre sperimentatori cercano la “quinta essenza, de’ segreti di natura” seguendo le istruzioni del trattato cinquecentesco di Raimondo di Lullo.
La trasformazione della materia: un obiettivo non esclusivamente alchemico, ma indubbiamente reale, per cui l’uomo non ha ancora finito di ingegnarsi a inventare e perfezionare sistemi atti a speculare. L’accostamento dei materiali disposti nel portego può ricordare le stratificazioni di una storia di mare, commerci e sfruttamento delle risorse – e delle relative conseguenze – che è ancora inesorabilmente in atto.

Marzia Migliora
 quis contra nos., 2017 Adhesive text on mirrors from the collection  cm 59,3 x 5,9
- cm 79,1 x 7,9
- cm 44,5 x 4,4 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora
 quis contra nos., 2017 Adhesive text on mirrors from the collection cm 59,3 x 5,9
- cm 79,1 x 7,9
- cm 44,5 x 4,4 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora La fabbrica illuminata, 2017  goldsmiths' workbenches, blocks of rock-salt, lights  cm 240 x 120 x 1470
 Private collection, courtesy Fondazione Merz Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora La fabbrica illuminata, 2017 goldsmiths’ workbenches, blocks of rock-salt, lights cm 240 x 120 x 1470
 Private collection, courtesy Fondazione Merz Photo Renato Ghiazza

Marzia Migliora — Velme
13 May – 26 November 2017
Venice, Ca’ Rezzonico Dorsoduro 3136
curated by Beatrice Merz

From 13 May to 26 November, the Fondazione Merz and MUVE, Fondazione Musei Civici di Venezia, present the Velme exhibition, a site-specific project by Marzia Migliora. The works are on display in some of the rooms of the Museo del Settecento Veneziano in the historic Palazzo Ca’ Rezzonico.

The project is characterised by forms of expression that are recurrent in the artist’s production: the desire to show that which is hidden and to bring out that which is submerged, the relationship with space and the history of places.
Marzia Migliora aims to bring out the contradictions and repeated exploitation – of natural resources, of human resources and labour, typical of the history of mankind – through the clues emerging from the history of the lagoon city and from the works conserved in Ca’ Rezzonico, establishing a dialogue and contrasting them with those made by herself. The artist accomplishes this here by extrapolating some elements from the collection, bringing them to life and showing them in a new light, shifting the point of view of the visitor, and by doing so returning them to us and to our times.

The title of the exhibition aptly summarises the considerations that underpin the project. The word velma is the Venetian term for a shoal, indicating a shallow area in the lagoon that emerges during low tides. These shoals, just like the entire ecosystem of the Venetian lagoon, are at great risk because of the morphological degradation and erosion of the seabed, caused by a lack of awareness and the continued violations perpetrated by man.
The velma, the “meeting point” in the relationship between water and land, the symbol of something underwater that never stops emerging, thus becomes “an urgency of the present” and a bridge that connects us with the past.

The project comprises five installations carefully chosen by the artist and located in different rooms of the Palazzo. In the portego de mezo – the typical feature of Venetian palaces that links the water gate to the door on the street – hosts a work called La fabbrica illuminata (literally the illuminated factory): 5 goldsmiths’ workbenches illuminated by a row of neon lights and in which, on each upper shelf, a block of rock salt has been placed.
The installation and elements that go to make it up – salt, which was so vital in the trading history of Venice, also known as “white gold”, and the goldsmiths’ workbenches – refer to the exploitation of natural resources and labour needed to transform these into commercial goods and profit.Pietro Longhi’s famous work. Il Rinoceronte (The Rhinoceros) becomes a quotation and revelation for the Taci, anzi parla. (Be silent, no, speak) installation. The lady with the white robe depicted in the background of Longhi’s painting wears a mask that at the time was exclusively for female use, called a Moréta: a black oval with two holes for the eyes. Women could fix the mask to the face just by clutching a gag bit between their teeth, which, of course, obliged them to silence.
The artist extrapolates the mask from the painting and places it at the centre of the boudoir, so that it is revealed to the public and can be seen in all its entirety, including the back.

The quis contra nos. (Who against us) installation bases itself on the crest of the Rezzonico family, present in different rooms of the building, and which in golden letters comprises the words Si Deus pro nobis. Over the course of history, these words have been used on many occasions and manipulated to justify criminal acts, wars and mass murders by great dictators and men of power. The phrase is taken from St. Paul (Romans, 8, 31) and in its original form reads: si Deus pro nobis, quis contra nos. (If God be for us, who can be against us?). The omitted part of the motto is revealed by the action of Marzia Migliora, appearing on some mirrors in the palace collection.

The sculptural corpus of Ethiopians vase-holders by Andrea Brustolon and the fresco by Giovanni Domenico Tiepolo entitled Mondo Novo provide the basis for the eponymous installation by Marzia Migliora, located on the first floor. The artist moves the statues of the Ethiopians forward and rotates them by 180 ° from their current position in the collection, marking this small displacement with the sort of metric rod used for the documentary photography of archaeological finds. Thanks to this move, the Ethiopians metaphorically take a step forward, marking a change in the direction of the “Mondo Novo” (“New world”): from enchained slaves and objects to human presences. The installation located in the Longhi Room entitled Remains, consisting in a cast of a rhinoceros horn contained in a casket, again relates to Longhi’s The Rhinoceros. The scene depicted in the painting – an animal become helpless prey, a sort of circus attraction, with the cut horn exhibited by a man like a trophy – is extremely topical: rhinos are increasingly threatened by poaching and illegal hunting because of their horns, today worth more than their weight in gold on the black market.

Marzia Migliora
 quis contra nos., 2017 Adhesive text on mirrors from the collection  cm 59,3 x 5,9
- cm 79,1 x 7,9
- cm 44,5 x 4,4 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora
 quis contra nos., 2017 Adhesive text on mirrors from the collection cm 59,3 x 5,9
- cm 79,1 x 7,9
- cm 44,5 x 4,4 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora
 Taci, anzi parla., 2017 Moréta mask from lifesize cast of the artist’s face, gauze with plaster and sewn wooden gag bit, Plexiglas cabinet
 Mask cm 15 x 13 x 7,7
 Cabinet cm 30 x 30 x 30 Steel structure cm 220 x 90 x 90
 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza
Marzia Migliora
 Taci, anzi parla., 2017 Moréta mask from lifesize cast of the artist’s face, gauze with plaster and sewn wooden gag bit, Plexiglas cabinet
 Mask cm 15 x 13 x 7,7
 Cabinet cm 30 x 30 x 30 Steel structure cm 220 x 90 x 90
 Courtesy the artist and Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Photo Renato Ghiazza