Testo di Aurelio Andrighetto —
L’arte e la vita di Baruch s’intrecciano tra loro, come la trama e l’ordito nei tessuti in lana, nylon, cotone, cashmere, viscosa, seta e poliestere che l’artista trasforma in opere d’arte, trasferendo in esse la complessità delle sue esperienze: la militanza femminista e l’accoglienza dei migranti, la critica sociale e un’irrefrenabile curiosità intellettuale che la spinse a girovagare per l’Europa e il Medio Oriente. Poliglotta e ultranovantenne, l’artista ha attraversato culture diverse e assistito a molte trasformazioni socio-politiche, che riferisce per analogia alla fluidità del tessuto. Il materiale vive e palpita tra le sue mani. Baruch utilizza scarti della produzione prêt-à-porter, che distende a parete evidenziando le forme in negativo lasciate dai ritagli, oppure che drappeggia esaltando il movimento flessuoso della linea che segue il loro contorno.
La linea di contorno gira su se stessa lasciando immaginare altri piani dietro di sé (Gaio Plinio Secondo, Storia Naturale, XXXV, 68). Questa linea conferisce un valore plastico ai tessuti drappeggiati al di là del loro rilievo, o del loro essere esibiti a tutto tondo, come alcuni stracci sospesi in teche aperte. Il disegno suggerisce il volume evocando un’enigmatica forma di scrittura. Già Pomponio Gaurico a inizio Cinquecento portò l’attenzione sul rapporto tra scultura e scrittura, sulla base dell’etimologia del termine graphéas usato da Demostene per designare sia gli scultori che gli scrittori (De sculptura, Firenze 1504). Baruch mette in rapporto linguaggi diversi dialogando anche con la scrittura, sia quella misteriosa formata dai cascami di tessuto, sia quella dei titoli che sottolineano il significato suggerito dalle immagini.
Attraverso la sua opera ci invita a riflettere sul passaggio dalla sartoria artigianale all’industrializzazione del tessile, un passaggio che va considerato anche nel suo aspetto socio-economico. Il taglio, che crea materialmente lo scarto tessile, in senso traslato rinvia alla divisione del lavoro nell’organizzazione taylorista della produzione. Possiamo considerare l’opera di Baruch come un’interpretazione critica dell’industrializzazione della produzione tessile, che sembra mostrare alcune corrispondenze con un gesto provocatorio divenuto un emblema dello stile punk. Mi riferisco alla famosa maglietta con gli strappi (studiati, se non addirittura ricercati) ideata nel 1976 da Vivienne Westwood, che gestiva insieme a Malcolm McLaren la famosa boutique al 430 di King’s Road.
Liminare agli strappi della stilista britannica troviamo la tecnica del cut-up (ritaglio) utilizzata da William Burroughs in ambito letterario e da McLaren in ambito artistico e musicale. Quest’ultimo nel 2008 ha concesso un’intervista alla rivista online “Warburghiana”, nel corso della quale ha illustrato le varie tecniche, cut-up inclusa, utilizzate per realizzare SHALLOW 1-21, la sua ultima opera visiva e musicale.
Queste tecniche sembrano avere un rapporto con i ritagli tessili e i loro resti utilizzati da Baruch. A questo proposito cito un passo estratto dall’intervista a MacLaren: “Riguardo a SHALLOW 9, la musica, come tutta la musica in SHALLOW 1-21, è costituita da una serie di ritagli che provengono dagli archivi della cultura pop, poi scolpiti da me medesimo in modo da formare dei nuovi brani musicali […]”. L’idea che dei “ritagli” musicali possano essere scolpiti per dar luogo a dei film concepiti come delle “pitture musicali” esprime molto bene questo attraversamento e anche mescolamento di linguaggi, nel contesto di una cultura di protesta che s’innesta in quella artistica, musicale e letteraria del taglio e del prelievo. È un fenomeno che caratterizza alcune delle pratiche artistiche e letterarie delle Neoavanguardie e che affonda le sue radici nelle avanguardie del Novecento, un secolo che Baruch ha vissuto intensamente spostandosi da una città all’altra.
Nata a Timisoara nel 1929, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, che frequenta per un anno prima di trasferirsi alla Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme, dove studia con Mordecai Ardon. Nel 1953 il Micra Studio di Tel Aviv le dedica una mostra, grazie alla quale ottiene una borsa di studio che le consente di raggiungere l’Italia, dove collabora con pionieri del design tra i quali A.G. Fronzoni e Dino Gavina. Con Gavina sviluppa due oggetti di design radicale (Ron Ron e Lorenz) appartenenti alla serie Ultramobile. La sua opera plastica e pittorica dialoga con il design, l’architettura, la moda e anche con forme di arte partecipativa. Negli anni Novanta sviluppa il progetto NAME DIFFUSION allo scopo di promuovere un approccio collettivo alla creazione di oggetti e opere. Dal 1993 al 2010 vive e lavora a Parigi, dove organizza anche delle azioni collettive di arte urbana: La collecte des chûtes e Parischûtes, nel corso delle quali persone di diversa etnia e nazionalità raccolgono dai cassonetti dei rifiuti o per strada degli scarti di tessuto, che poi intrecciano e annodano.
I cascami tessili che esibiscono il vuoto lasciato dal ritaglio sono un emblema di questo suo approccio inclusivo e partecipativo, declinato in un’estetica relazionale. Nella sua opera il vuoto è considerato uno “spazio attivo”. Nella serie di incontri di Une chambre vide del 2009 l’artista aveva svuotato una stanza del suo appartamento a Parigi per trasformarla in un luogo di incontro e di accoglienza per i sans papiers.
La sua opera ha una connotazione socio-politica, anche quando lascia cadere i tessuti come se dovessero fluire con eleganza su un corpo. Essi conservano la memoria dell’Abito-Contenitore che avviluppa completamente il suo corpo mentre passeggia lungo via Montenapoleone a Milano, un’opera performativa del 1969-70 che impressiona per la sua attualità. La rivendicazione femminista “vive” e “palpita” nei tessuti scartati dalle sartorie ai quali Baruch conferisce una forma artistica.
Negli stessi anni in cui si forma il Movimento di Liberazione della Donna (MLD), Walter Albini lancia il prêt-à-porter italiano nel segno di una pretestuosa libertà del consumatore. È lo stesso Made in Italy che problematizza il ruolo della donna impegnata nell’industria tessile. Baruch sembra comprendere le contraddizioni del fenomeno. La sua protesta non è ideologica, è artistica. L’arte lega tra di loro cose che logicamente non potrebbero stare insieme. Il pensiero di Baruch è di tipo associativo, non consecutivo.
Giungiamo così a una questione che potremmo definire ‘cruciale’ sia per la proiezione sociale della sua opera, sia per l’iconografia alla quale l’opera stessa rimanda. La critica all’organizzazione taylorista del lavoro e più in generale a un modello di società caratterizzata dalla sovrapproduzione e dallo spreco, si esprime attraverso l’esibizione degli scarti tessili, sarebbe meglio dire attraverso la loro ‘ostensione’, richiamando – forse inconsapevolmente – il drappeggio del perizoma di Cristo in croce. Ciò conferisce ai ritagli un che di sacrificale, evocando temi iconografici dell’arte antica. Attraverso immagini sedimentate nella nostra cultura visuale, l’opera di Baruch richiama il tema del sacrificio, coniugandolo alla critica sociale attraverso il pensiero associativo che caratterizza l’arte e la poesia, un pensiero che non si può dis-piegare e che perciò resta piegato, avvolto, come le rimanenze di stoffa nei depositi, o aggrovigliato come gli avanzi tessili che Baruch trova tra i rifiuti e ai quali conferisce un valore estetico. Dare al rifiuto e a chi è rifiutato una possibilità è l’arte di Baruch.
Viasaterna, Milano