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Il percorso espositivo inizia con un delicato ritratto dei genitori di Édouard Manet (Parigi 1832 – Prigi 1883), reso vibrante dalla sanguigna rarefatta, acquosa e opaca. Accanto alle varie opere di Manet, in ogni sala si troveranno dipinti di altri artisti coevi, che con lui hanno condiviso momenti, luoghi o gusti. Tra questi, nella prima sala c’è Carolus-Duran, che nei suoi oli su tela presenta ritratti di giovani uomini dalla barba folta, le camicie a righe bianche e pervinca dalle maniche larghe, bluse rosso sangue di seta lucida… quasi fossero gagliardi hipster ante litteram. I lineamenti sono marcati ed energici, mentre gli occhi sono piccoli, annebbiati dalla stanchezza, dall’alcol e dalla droga… o forse da una lunga giornata di lavoro. Si passa dal mondano Zacharie Astruc, ad un anonimo e sexy convalescente abbandonato su una sedia, fino al ritratto doppio di due ragazzi accostati, sfioranti: Fantin-Latour e Oulevay, belli, giovani, ammiccanti, furbi.
E da qui si ritorna a Manet, nel ritratto che fa a al poeta rivoluzionario Stéphane Mallarmé: i colori si rompono, le pennellate si spezzano e sporcano, i contorni non esistono già più. E in più le mani si liquefanno sulla tela, creando un amalgama unico e denso. Mentre nel rappresentare la modella Berthe Morisot (che sposerà Eugène, fratello del pittore), Manet calca la mano sulle sopracciglia folte, sullo sguardo maschile e i capelli corvini, mimetizzati nell’abito nero indossato per la recente morte del padre.
Il tema del ritratto ha un esempio significativo nell’olio esposto che Giovanni Boldini fa all’anticonformista e processato intellettuale Henri Rochefort, mettendo in luce gli occhi vispi, la pelle chiara e tesa, la mossa scattante che dà bene l’idea dell’energia intellettuale e dell’impegno civile del protagonista.
La sezione successiva è dedicata alla Parigi ottocentesca come emblema della città moderna. Si trova il dipinto dell’olandese Johan Barthold Jongkind in cui emerge una Senna luminosa con Notre Dame di sfondo, tutto reso con colori limpidi, ma non ancora complementari, seppur già spezzati e separati da nette e ravvicinate pennellate di colore…mentre le persone e i contorni di finestre e porte sono ancora troppo definiti per potersi dire impressionisti. E la Senna compare anche nell’olio in cui Gauguin predispone il Ponte Léna: siamo ormai verso la campagna, dopo una nevicata, con le sponde bianche, leggermente più pulite rispetto al cielo torbido e fumoso, che schiaccia questo piccolo scorci di paesaggio. Le figure umane sono pochissime e si limitano ad essere sagome scure, nere quasi come i barconi ormeggiati e riva…tutto sembra tacere in attesa dell’invasione urbana di Haussmann.
I paesaggi in mostra sono pausati da disegni progettuali di chiese realizzati a matita, penna o inchiostri su carta lucida, talvolta con luneggiature di acquarello o oro (Victor Baltard, 1868). Ci sono anche studi per la realizzazione dei padiglioni delle prime esposizioni universali, come Il Palazzo dell’Industria costruito per l’expo del 1855. Il disegno preciso e meticoloso è di Max Berthelin e testimonia bene la forza d’impatto e la novità ideologica del ferro delle arcate, delle colonne portanti e delle travi, che salgono leggere, costellate da vetrate trasparenti per una luminosità interna senza precedenti. E si passa poi alla stazione di Champ de Mars di Juste Lisch, o al Circo Imperiale di Hittorff, o ai primi edifici residenziali della ristrutturazione haussmaniana dei disegni di Pigault.
L’opera per cui vale la pena vedere la mostra è forse Le Tuileries di Claude Monet: dipinta dalla finestra del collezionista Victor Chocquet da cui si scorge una parte di Parigi e il giardino privato. La vegetazione viene resa con vaghe cerchiature di pennello come riccioli di un bambino. I colori d’altra parte sono freschi e puri: i verdi sono quelli delle gemme di primavera, i rosa quelli dei ciliegi durante la fioritura, i gialli quelli dei gigli macchiati dal sole. C’è tantissima confusione di colori, pennellate, contorni impercettibili, sagome e forme… ma forse si tratta solo della confusione della natura quando colta nell’attimo istantaneo. I toni somigliano a quelli del paesaggio che un Paul Signac ventenne esegue dalla strada di Gennevilliers, paese dove vive la sua famiglia, ancora incontaminato dall’urbanizzazione galoppante: brillante, chiara, allegra e docile la pittura, mentre le ombre sono viola, il fumo delle industrie è verde, i tetti arancioni e le strade rosa…tanta è la letizia.
Si passa poi ai dipinti ispirati a Le déjeuner sur l’herbe, come quello di Boudin del ’66 (più casto della fonte, con donne vestite pomposamente), o quello di Cézanne, un Pastorale (1870) super sexy in cui i corpi nudi e carnosi di tre donne sfumate si mescolano benissimo alla morbidezza avviluppante del paesaggio naturale, nel lago denso, nei suoi riflessi rosati…i colori sono più scuri, forse è il crepuscolo. C’è ovunque qualcosa di più misterioso, non dichiarato e sporco.
Molto belli gli inchiostri neri diluiti e le grafiti su carta dove Manet rende scenari di luna piena o di vedute alla finestra, oppure di interni di caffè cittadini…il tratto veloce, l’idea di luce e vaporosità della vista rendono il tutto iperstilizzato e iperevocativo, come la piccolissima Marina del ’68, di un’acquarello veloce come il vento che muove le sue vele.
E poi si va verso le nature morte floreali, con i garofani di Henri Fantin-Latour, gli impasti carnosi delle rose di Renoir, le peonie slavate di Manet, l’asparago trasparente di Monet.
Da qui si passa alle opere su cui ha influito la pittura spagnola, dopo la scoperta di Velasquez al Prado. Vediamo una donna latina alla finestra, imbruttita dalla luce cruda e diretta che le colpisce il viso facendo emergere le rughe attorno al naso, le occhiaie scure, la bocca piccola e troppo carnosa, molle. Oppure la ballerina fatta con una pittura alla Goya, con contorni scuri di un bianco brillante, ma sexy; il combattimento di tori dove la platea si è sciolta in una miscela di punti cromatici mescolati e confusi, ormai puro movimento.
Proseguendo verso la fine del percorso le opere forti scarseggiano, ma è da ricordare la scena di festa di Boldini al pub Folies Bergère: rosse le pareti, roso il pavimento, rosso il fiocco di raso della procace donna in primo piano, rosse le guance degli uomini accaldati ed eccitati. Sembra quasi di sentire l’umidore del locale caldo, il profumo di cognac, l’odore di sudore… Altrettanto lasciva è la balconata dell’Opéra (di Henri Gervex) con una ragazza in un abito di struzzo bianco e una mascherina nera quasi sadomaso, accerchiata da tre uomini in nero con cilindro…un ménage che sa di eleganza, lusso, vizio, ricchezza (in bella vista è l’anellazzo d’oro di uno degli uomini), che rimanda al grande dipinto di Jean Béraud simile ad una foto Instagram di una festa romana odierna con politici dimenticati e donne dello spettacolo fallite.
In definitiva la mostra offre poche opere di Manet, che in realtà le dà il titolo, proponendo invece molti suoi artisti coevi, offrendo tutto sommato un rapido accenno alle tematiche stilistiche e di soggetto di quegli anni nella Parigi di Napoleone III confusa dall’invasione architettonica del barone Haussmann, dove la pittura sta scoprendo modi e gettando idee che cambieranno per sempre l’evoluzione della storia dell’arte.