La casa come ambiente famigliare, come rifugio, come luogo in cui tornare, ma anche come spazio del conflitto, come gabbia. È questa la dualità esplorata da Mai-Thu Perret con la mostra Real Estate allestita tra le sale dell’Istituto Svizzero di Roma, tra quelle che erano le stanze proprio di una casa: Villa Maraini, dimora costruita ai primi del Novecento e proprietà degli omonimi proprietari, grandi produttori di zucchero. In questa mostra, la prima grande esposizione in Italia dell’artista svizzera, la sfera domestica, da secoli legata alla figura della donna e del femminile, diventa infatti per la Perret una dimensione – fisica e del pensiero – con la quale indagare il concetto di femminilità, il bisogno di appartenenza e di proprietà.
È possibile far risalire l’idea della casa come luogo della donna, come unico contesto di realizzazione personale, ai processi di privatizzazione (enclosure) della terra da parte dei ricchi iniziati già XIV secolo e diffusisi in tutta Europa nel corso del XVIII e XIX secolo. Un sistema di appropriazione delle terre con il quale si negava ai contadini il diritto di accesso ai campi e ai boschi per la sussistenza causando così una vera e propria migrazione dalle campagne verso le città, alla ricerca di un lavoro salariato. Tra le mura domestiche si venne così a creare un divario, una differenza, tra l’uomo percettore di salario e il resto della famiglia, subordinato al ruolo di persone a carico in quanto non funzionali alla produzione di capitale. In questo contesto, la quasi invisibilità della vita di Carolina Maraini-Sommaruga – moglie del produttore Emilio Maraini – non appare poi così eccezionale. La sua vita e la sua figura sembra quasi essersi volatilizzata tra le colonne di marmo, i soffitti a stucchi e le tappezzerie della Villa, elementi tra i quali la Perret sembra far riemergere la sua voce. Ed è proprio il suono ad accogliere lo spettatore. Già nel pergolato del giardino Eventail des caresses, tre organi in bronzo fuso, risuonano al vento come le campane dei templi buddisti: annuncio di un rituale o voce dell’universo?
Più esplicito è invece il contenuto sonoro dell’installazione del corrispettivo giardino al coperto (il giardino di inverno) per la quale la Perret ha collaborato con la cantante e poetessa Tamara Barnett-Herrin.
THE SUBJECTIVE FACTOR, questo il titolo dell’opera, è una composizione che mescola canti simili a ninnenanne con una sorta di dialogo poetico sui temi della sfera domestica e delle donne ribelli, ma anche su Marguerite Duras e il suo saggio autobiografico La Vie Matérielle. È in questo lavoro sonoro che possono essere rintracciati alcuni degli elementi più ricorrenti, e forse fondamentali, della pratica artistica di Mai-Thu Perret dall’approccio riconducibile ad alcune delle riflessioni più contemporanee del movimento femminista. Da una parte l’importanza del lavoro collaborativo e dall’altra la dimensione del fare, pratiche che nel discorso internazionale possono essere ricollegate alle metoologie transfemministe e queer.
È alla dimensione del fare, nella quale confluiscono la figura femminile e quella dell’artista, che la Perret rivolge l’opera tessile Vertical horizontal composition, un grande arazzo che si ispira ad una gouche dell’artista svizzera Sophie Taeuber-Arp pioniera dell’arte costruttivista e altra figura femminile scivolata in secondo piano nella storia, e Untitled una mano in smalto su legno posta sopra il camino. Al quest’ultimo soggetto dedica la grande installazione al neon all’ingresso del giardino dell’Istituto in quanto importante simbolo della filosofia tantrica indiana del II secolo e motivo figurativo delle origini, ma anche appunto simbolo dell’operosità produttiva. Se da una parte il fare, in assenza di voce, diventa espressione di identità, di appartenenza, dall’altro l’atto del disegnare diventa per l’artista il corrispettivo di un’altra forma silenziosa e diretta: lo scrivere. Nella serie di piccoli acquarelli, posti proprio di fronte al grande arazzo, il disegno diventa gesto intimo che dà forma ai pensieri.
Dal mondo interiore l’artista si muove verso quello esterno accompagnando lo spettatore da una sala all’altra con due lampade di carta smaltata giapponese poste sopra la sfarzosa scalinata d’accesso, Space is the place, preludio delle grandi ninfee della sala sul giardino. The merging of all into one – this cannot be grasped è il frutto dell’interesse dell’artista nei confronti dell’opera dell’architetto paesaggista e collezionista botanico Roberto Burle Marx, ma anche rappresentazione simbolica (ancora una volta duplice) di natura addomesticata e di contrasto tra dentro e fuori. Le ninfee, tante volte dipinte nella loro naturalezza cangiante da Monet, sono ora qui imperturbabili ai cambi di luce, rinchiuse tra le mura domestiche e private della loro libertà.
La ceramica, con le quali sono realizzate, torna nuovamente in Abnormally avid III, un cesto di mele vicino al camino della stessa sala, e nella serie di maschere animali nere, entrambe opere che rimandano all’interesse per la figura della strega. Ruolo per il quale, proprio a partire dai secoli delle enclosures, venivano accusate tutte quelle donne che resistevano a quella forma di schiavitù che ne rilegava la figura tra le mura domestiche, scegliendo stili di vita autonomi dalla figura maschile e dai compiti domestici utili al capitale. Torturate come eretiche, punite con la violenza sessuale sistematica, sottoposte a sorveglianza e controlli ancora più stringenti sulle loro scelte sessuali e riproduttive, le donne vengono così addomesticate, identificate come creature fragili e bisognose di cure e protezione, proprio come le ninfee o come quei colombi e altri uccelli forgiati in vetro.
Eppure c’era un tempo in cui le donne erano altro dall’immagine stereotipa di casalinga. E allora eccola lì, nell’ultima sala, Minerva la dea romana della saggezza, della guerra strategica, dell’edilizia navale e dell’arte, ma anche custode del sapere e protettrice degli artigiani, dei maestri e dei poeti e delle poetesse. È in quest’ultima sala che torna una seconda casa di Roma, l’antica Villa Livia, la dimora della moglie dell’imperatore Augusto prima imperatrice di Roma, decorata da affreschi che rappresentano un giardino pieno di uccelli e altri animali (oggi a Palazzo Massimo). Decorazioni dipinte su tutta la grandezza dei muri, dalla fine della volta a botte fino al pavimento, senza elementi architettonici verticali, senza la minima presenza dell’uomo e nelle quali appare netto il contrasto tra una stanza sostanzialmente sotterranea ed il soggetto dipinto. La dea di Perret è parente della Minerva di Palazzo Massimo – che si stima risali al I secolo a. C o all’inizio del I secolo d. C. – qui riproposta dall’artista in una scultura in ceramica realizzata utilizzando una scansione dell’originale in 3D trovata in rete mescolata ai lineamenti di una donna eurafricana reale, tra le sue amicizie personali.
È tra le mura di una casa che ha perso ormai la sua dimensione domestica, letteralmente svuotata e potenzialmente pronta per il mercato immobiliare – il real estate – che la figura femminile della Perret sembra raccogliere in un unico luogo le sue storie, le sue rappresentazioni e le sue narrazioni, troppe volte imposte e rilegate tra le mura di una dimora.
Real Estate
Solo Exhibition by Mai-Thu Perret
A cura di Gioia Dal Molin
Istituto Svizzero, Roma
25.03.2022 26.06.2022