La stagione primaverile a Milano vede numerose mostre dedicate alle donne artiste. Tra queste, particolarmente degna di nota la personale – la prima in un’istituzione italiana – dedicata a Lygia Pape alla Fondazione Carriero, curata Francesco Stocchi. La mostra milanese è un’opportunità per approfondire la conoscenza di una tra le figure più interessanti dell’arte sudamericana contemporanea, celebrata internazionalmente ma poco esposta in Italia. La scelta di Pape, sottolinea Stocchi, si inserisce coerentemente nel programma della Fondazione in quanto «ideale prosecuzione della mostra di Sol Lewitt dello scorso ottobre, nel comune tentativo di sottolineare l’aspetto emotivo dell’uso della geometria astratta anche se in modi diversi e complementari».
Èd è proprio questa caratteristica emotiva e vitale la costante che distingue il lavoro dell’artista nelle diverse fasi della sua ricerca sviluppata nell’arco di cinquant’anni, dai tardi anni quaranta ai primi duemila (Pape scompare nel 2004 all’età di 77 anni). Un’artista estremamente prolifica e aperta alla sperimentazione di diversi media, con una voglia mai esausta di mettere alla prova anche se stessa, in una costante tensione verso il cambiamento che sorprende sempre anche e soprattutto nel corso del tempo, insieme alla libertà di ripresa e di approfondimento del suo percorso precedente.
Le sue scelte e la sua propensione verso il nuovo si possono comprendere meglio se contestualizzati nella realtà brasiliana degli anni cinquanta, quando questa spinta è diffusa e condivisa da molti e corrisponde a un rinnovamento sul piano politico e sociale che si riflette nelle arti, nel cinema – il movimento del cosiddetto Cinéma Nôvoa cui Pape partecipa –, nella letteratura e soprattutto nell’architettura – con la spettacolare edificazione di Brasilia, città ideale e capolavoro del razionalismo – , sulla scia del promesso miracolo economico e delle promesse di apertura finite malamente con l’avvento della dittatura ma sopravvissute nell’attitudine “esistenzialista” degli artisti. Pape è, già da giovanissima, una figura di spicco del rinnovamento figurativo, membro insieme a personalità quali Lygia Clark ed Hélio Oiticica del Grupo Frente, punto di riferimento del Neoconcretismo brasiliano. Il movimento è il lontano erede del primo modernismo europeo – in particolare di De Stijl e del Costruttivismo russo – rielaborato con un carattere spiccatamente e originalmente nazionale. Pape partecipa concentrandosi inizialmente sulla geometria primaria e sul colore da cui però presto si discosta a favore di una più spiccata sensibilità, accogliendo nel suo lavoro la sensorialità, la sensualità e il corpo inteso come veicolo di comprensione e conoscenza. L’artista abbraccia la fisicità e allarga il suo sguardo fino a comprendere la tradizione popolare, arrivando così a una sintesi personale tra le istanze europee e la ricchezza della cultura locale.
La mostra vuole restituire questo spirito proponendo un percorso acronologico che approfondisce i nuclei fondanti del lavoro di Pape attraverso le tipologie di lavoro ritenute più significative, a ciascuna delle quali è dedicata una stanza. La visita inizia nelle sale del piano terra con un ampio numero di opere geometriche tra le quali le sculture della serie Livro do tempo (1965) messe in relazione ai libri Libro Noite e Dia (1963-1976) e Livro da Criação (1959-1960) e a una serie di disegni degli anni ottanta, a sottolineare la necessità di Pape di rivisitare il proprio percorso con un’attitudine sempre nuova. Una piccola ma rappresentativa selezione di video, tra cui A Mao do Povo (1975) e O Ovo (1967) focalizzati sul corpo e sull’interazione, è presentata al secondo piano insieme alla bella serie dei Desenho – Espaços imantados, Registro cinetografico (1980) i “disegni cinematografici” che mescolano figurazione e collage componendo degli storyboard e l’ampia selezione dei Tecelares (1952-1956), le note xilografie degli anni cinquanta dove la ritmica geometrica e la libertà del segno si fondono. E ancora i Poema Luz (1956-1957) in cui la parola si fa luce e colore, che, come il segno – e la geometria – necessariamente si dissolve in pura sensibilità.
Infine la spettacolare Ttéias 1 (2000), riedizione dell’installazione già presentata alla Biennale di Venezia del 2009: qui il ritmo dei fili dorati e argentati si moltiplica variando a seconda di molteplici punti di vista che si amplificano riflettendosi negli specchi della sala espositiva, annullando i limiti fisici e spalancando uno spazio virtualmente infinito.