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Luisa Gardini. La stessa voce ma non lo stesso canto | Fondazione del Monte, Bologna

La retrospettiva è terza tappa di una serie di mostre che hanno l’obiettivo di gettare nuova luce sulla pratica di artiste originarie o attive in Emilia-Romagna e permette di interfacciarsi con una pratica articolata su plurime traiettorie in costante interazione reciproca, a cavallo tra pittura, disegno e scultura.
Senza Titolo (Rossini), 2017, 30 x 30 x 6 cm | ph. Carlo Favero

“Flussi mescolabili” sono per Gabriella Drudi le traiettorie che si possono tracciare nel percorso di Luisa Gardini (Ravenna, 1935. Vive e lavora a Roma): scultura, pittura, disegno convergono in opere polimateriche che rinnovano nei decenni le proprie modalità espressive, come un canto che continuamente rimodula un certo timbro vocale. È a questa metafora che si rifà il titolo La stessa voce ma non lo stesso canto della prima retrospettiva in una sede istituzionale dell’artista, dedicatale dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna nella sua sede bolognese di Palazzo Paltroni. La personale è la terza tappa di una serie di mostre che hanno l’obiettivo di gettare nuova luce sulla pratica di artiste originarie o attive in Emilia-Romagna, dopo quelle dedicate negli scorsi anni a Pinuccia Bernardoni (2023) e Greta Schödl (2024). Le curatrici Cecilia Canziani e Ilaria Gianni hanno pensato ad un percorso espositivo che mettesse in relazione una selezione di opere vecchie e nuove dell’artista, accostate per mettere in evidenza lo sviluppo coerente della sua pratica e l’approfondimento costante nel corso dei decenni di alcune linee espressive, perseguito nella pratica quotidiana del proprio studio, in cui le dinamiche di interazione tra oggetti e materiali restano fluide e continuamente soggette a mutamenti, rifuggendo dalla cristallizzazione in opere: “Cose che a volte sono opere e a volte ancora no, o non ancora – scrivono le curatrici nel testo in catalogo – lavori degli esordi che convivono fianco a fianco con sculture appena realizzate, segni e immagini (scattate e stampate, fotocopiate, ingrandite o rimpicciolite, sovrapposte o ancora ritagliate da un giornale) che possono appoggiarsi su una tela, oppure su una scultura, e magari nello spazio di tempo tra una visita allo studio e l’altra, migrare altrove, diventare parte di un’altra opera. Le cronologie, le tipologie, i materiali sono permutabili ad infinitum: lo stesso segno a volte si fa pittura e a volte diventa scultura, così come la tela può negare la bidimensionalità del quadro per prendere volume e ancora un oggetto assottigliarsi fino a farsi superficie”. Anche le sculture presenti in mostra sono connotate da questo carattere precario, transitorio: frutto dell’impilamento di elementi in diversi materiali – alcuni solidi e con funzione di portanza come il legno, il basalto o la ceramica, altri più leggeri e fragili come il tessuto, la corda o la carta di giornale –, appaiono a metà tra l’essere residui di iter produttivi precedenti e sedimenti di vissuto quotidiano prossimi all’objet trouvé.

Dedicato, 2024, tecnica mista su tela, 40 x 50 cm | ph. Sario Manicone

Dopo una prima formazione a Ravenna, la storia artistica di Luisa Gardini si sviluppa a partire dalla fine degli anni ’50 presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ha per maestro Toti Scialoja. In quel periodo ha la possibilità di scoprire l’arte americana, grazie alla grande mostra di Jackson Pollock alla Galleria d’Arte Moderna di Roma e alla frequentazione diretta degli artisti di passaggio nella capitale. Determinante è l’incontro con Cy Twombly, che sarà un riferimento per i futuri sviluppi del suo ductus, orientatosi alla reiterazione variata di grafemi ora più vorticosi ma pronti a dialogare, nella loro ruvidezza espressiva, con la leggerezza impalpabile di una garza, solo parzialmente fissata alla tela, che rivela in trasparenza altri segni di grafite (Senza titolo, 1979), ora tendenti ad aggregarsi in maglie segniche in cui sembra di cogliere una trama e un ordito in continuo bilanciamento reciproco, approssimandosi ad una scrittura asemantica (Sopra le righe, 1995). “Logorio e insieme labirinto” fu la definizione che Scialoja dette del suo lavoro. Quando in questo liquido amniotico si configurano dei soggetti riconoscibili, può trattarsi di studi grafici di una buccia di banana abbandonata in diverse posizioni sul tavolo dello studio (Senza titolo, 1965), oppure della sagoma incompleta di una mano che appare su una pagina di giornale ripiegata e applicata sul supporto (Senza titolo, 1978). Negli anni ’80 l’artista approda anche all’acquerello, e nell’epidermide ricoperta di pittura diluita effettua scarificazioni lineari (Senza titolo, 1982). Col nuovo millennio anche la sua pratica scultorea ha conosciuto un rinnovamento attraverso la ceramica: il supporto del laboratorio Gatti di Faenza le ha permesso di riprendere le sue tradizionali modalità compositive per montaggio e impilamento raffinando la lavorazione dei singoli moduli e approdando all’impiego della tecnica della fotoceramica, per integrarvi “pittoricamente” i suoi grafemi, oppure nuovi dettagli di mani. Nelle opere bidimensionali invece si riscontrano nuovi ritmi, più cadenzati, che includono fasce verticali di stoffa di colore rosso, ortogonali rispetto ai vortici di segni grafici (It Had to Be You, 2022). Ritorna anche la carta: fogli di dimensioni simili, ognuno opportunamente campito di segni di un rosso vibrante, sono montati “a scaglie” sul supporto (Dedicato, 2024). Sulle pareti opposte dell’ultima sala, ecco omaggi recenti alla città che l’ha accolta (Roma Amor, 2011) e al maestro Scialoja (Omaggio a T.S., 2007): in essi i segni inintelligibili che talvolta sono messi a fuoco quel tanto che basta a lasciar intuire nella scrittura corsiva il titolo dell’opera, il collage stratificato di elementi non ben aderenti al supporto e dunque sconfinanti nelle tre dimensioni, i dettagli fotografici di mani che, come gli scarabocchi, talvolta sono parzialmente occultati dai fogli di carta sono le plurime “corde vocali” che ancora una volta si rimodulano al servizio del canto ancora cristallino di Luisa Gardini.

Senza titolo, 1977, carbone e tessuto su carta su tela, 60 x 50 cm | ph. Federico Virgili
It Had To Be You, 2024, tecnica mista su legno, 150 x 130 | ph. Luana Rigolli