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Le sculture di Luciana Lamothe alla Galleria Alberta Pane e al Padiglione Argentina

Legno e metallo nelle opere di Lamothe intrecciano e mettono alla prova le rispettive proprietà di morbidezza, elasticità, resistenza, mirando a stabilire un'"intesa fisica" con lo spettatore.
Luciana Lamothe. Folding Roads, Galleria Alberta Pane, 2024, exhibition view | Ph. Irene Fanizza

Nella ricerca dell’artista argentina Luciana Lamothe (Buenos Aires, 1975) le proprietà dei materiali vengono attivate al fine di esaltarne al massimo grado il potenziale espressivo, secondo modalità operative che ricercano anche un’interazione fisica e una simbiosi sensoriale con lo spettatore. Il pubblico della 60esima Biennale di Venezia ha la possibilità di conoscere il lavoro di Lamothe attraverso la produzione site-specific Ojalá se derrumben las puertas (“Spero che le porte crollino”), ospitata nel Padiglione Argentina, presso le Sale d’Armi dell’Arsenale. In parallelo la Galleria Alberta Pane, che rappresenta l’artista da molto tempo, ospita presso la propria sede di Dorsoduro una panoramica del suo lavoro dal titolo Folding Roads (fino al 28 settembre), che espone sculture, fotografie, disegni e video prodotti negli ultimi dieci anni di attività, dai primi “atti vandalici” nello spazio urbano alle sperimentazioni più recenti sui materiali, che hanno preparato il terreno per il progetto in Biennale. Sui muri del corridoio a serpentina che accoglie i visitatori dopo l’ingresso nella galleria appaiono qua e là delle sculture metalliche di piccole dimensioni, in cui si riconosce ciò che è ormai solo lo scheletro di maniglie di diverse fattezze, che sono state intagliate, bruciate e ammaccate in modo tale da impedire il loro corretto utilizzo e, al contempo, stimolare sensazioni tattili inedite; le maniglie, che fanno parte della serie Adentro e si datano tutte al 2022, sono svincolate dagli oggetti a cui sarebbero virtualmente destinate e possono disporsi liberamente sulle pareti o sugli spigoli, come organismi dotati di vita propria. Una volta arrivati nella sala principale, appare una scultura di grandi dimensioni, composta da una serie di tubi innocenti che, se nella parte centrale sono saldi e fissati gli uni agli altri da dei morsetti, alle estremità, congiunte insieme ad anello, sono invece alterati con tagli a spirale, per effetto dei quali si piegano arrendendosi alla gravità, così da trasmettere un’impressione di flessibilità e quasi di “morbidezza”, in apparente contrasto con le proprietà intrinseche e intuibili del materiale (Untitled, 2018). In fondo alla sala è assemblata un’altra scultura di questo genere, ma in questo caso i tubi si protendono in avanti e si piegano come proboscidi o vibrisse (Untitled, 2018). Tra le due sculture giace un’altra creatura della stessa specie, un’ossatura ortogonale di tubi che sorregge e allo stesso tempo si incastra con due pannelli di legno le cui estremità sono sagomate a pettine e incrociate tra loro. Nel punto in cui avviene l’incastro si crea una zona di flessibilità che si presta a fare da seduta per i visitatori, accogliendone elasticamente il peso (Untitled, 2014).

Luciana Lamothe. Folding Roads, Galleria Alberta Pane, 2024, exhibition view | Ph. Irene Fanizza
Luciana Lamothe. Folding Roads, Galleria Alberta Pane, 2024, exhibition view | Ph. Nigra e Malfatti

Alle pareti sono esposti alcuni disegni che mostrano forme elementari pseudo-organiche, composte da innumerevoli archi di circonferenza tratteggiati a carboncino mediante le sezioni circolari dei tubi (Untitled, 2018); un connubio tra naturale e artificiale che si esplica ancor più chiaramente in altri disegni in cui le sagome delle mani dell’artista si ibridano con i profili di strumenti di lavoro, come pinze e tenaglie (Untitled, 2022-2024). Analogamente alle altre opere in mostra, anche gli scatti che mostrano la sagoma informe di Lamothe riflessa in una pozzanghera (Retrato borde, 2022), o finanche il video in cui vaga in scenari in cui la natura è compromessa dalle architetture industriali, dai binari della ferrovia o dai rifiuti (Caja Tarra Silla Marco, 2011), invitano “a una maggiore consapevolezza del rapporto tra ciò che è umano e ‘non umano’, introducendo una riflessione critica sulle implicazioni politiche, sociali ed etiche delle nostre interazioni con il mondo materiale”. Così si esprime Ilaria Gianni, che firma il testo critico; e prosegue: “La gerarchia tra il corpo dello spettatore, una tavola di compensato, una maniglia di bronzo, o un tubo di acciaio cessa di esistere così come tradizionalmente intesa. Se inizialmente lo spettatore, percorrendo una scultura, o interagendo con essa sembra in controllo delle sue azioni, sottomettendo il legno con il suo peso, cingendo l’acciaio con la sua forza, improvvisamente lo stesso legno di cui si è sempre fidato, lo sbilancia in un rovesciamento del concetto di predominio, proponendo una costante alternanza tra stati e posizioni”. Questo perché la materia delle opere di Luciana Lamothe è “pulsante e relazionale”, definizione che rimanda alla teorizzazione della filosofa politica Jane Bennett in Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, secondo cui gli oggetti, tutt’altro che inerti, sono pervasi da un’energia, una vitalità che si esplica nell’influenza che possono esercitare sugli individui, nell’empatia e nei desideri che possono indurre; vige, pur implicito, un mutuo rispetto, una “complicità naturale”, un’“intesa fisica”, una “comunicazione bilaterale”.

Luciana Lamothe. Ojalá se derrumben las puertas, Padiglione Argentina, 60° Biennale di Venezia, exhibition view | © Matteo Losurdo

Nel progetto sviluppato per il Padiglione Argentina queste modalità espressive sono sviluppate ulteriormente fino alla scala di un’architettura che accoglie e ingloba gli spettatori. La grande sala al piano terra dell’edificio delle Sale d’Armi è occupata in tutta la sua estensione da una serie di sculture in cui i consueti tubi innocenti morsettati fungono da ossatura di sostegno per dei pannelli lunghi e sottili in compensato fenolico, che grazie alla loro intrinseca elasticità si ripiegano in curve e controcurve come rotoli di tessuto. Le estremità dei “fogli” di legno sono spesso seghettate a pettine, come nella scultura ospitata in galleria; in corrispondenza di queste terminazioni, il legno va a intrecciarsi inestricabilmente con altri accrocchi di tubi, oppure con palchi di rami secchi lasciati allo stadio naturale. Nelle sculture/architetture il legno ritorna più volte in varie manifestazioni, più o meno avanzate nel processo di raffinazione e di assoggettamento del materiale alle necessità funzionali: in un caso un’ansa del compensato accoglie come un alveo un mucchio intricato di bastoncini, mentre poco lontano sono accatastate ordinatamente delle travi. Un ciclo trasformativo che inizia ben prima dell’allestimento attuale, dato che è stato utilizzato sia del legname proveniente da una foresta slovena, sia legno variamente lavorato frutto dello smantellamento della precedente Biennale Architettura. La compenetrazione violenta del metallo e del legno sembra carica di energia potenziale sul punto di esplodere, ma è in realtà frutto di un certosino lavoro di costruzione e incastro dei materiali che ha prodotto una struttura stabile; dunque un processo di manipolazione attiva del legno e del metallo fondato sull’esplorazione delle rispettive proprietà fisiche e meccaniche. In relazione a tutto questo l’artista parla di “transmaterialità”, intendendo con questo concetto che la resistenza, la durezza, la malleabilità dei materiali sono caratteristiche cangianti mai definibili a priori e piuttosto dipendenti dagli strumenti con cui si interviene su di essi, dalla loro risposta autonoma alle sollecitazioni esterne, dall’interazione reciproca, dal confronto attivo con la corporeità umana.

Due brevi video sono proiettati à pendant sui nastri di legno: il primo, Maderas (2024), è un montaggio serrato di brevi sequenze in cui mani anonime spaccano dei pezzi di legno facendo leva su/dentro altri oggetti o cavità, come una porta semichiusa, o la grata metallica di un cancello. Nell’altro video, Articulaciones (2024), il primo piano di un braccio steso a terra, forse lo stesso del video precedente ripreso in un momento anteriore o posteriore, si contrae come un animale sofferente ad un ritmo sincopato, lo stesso ritmo della rottura dei pezzi di legno nell’altro video; pertanto individui e oggetti sono immersi nello stesso sistema di forze e viene meno qualsivoglia tentativo di distinguere un soggetto attivo che incanala nelle proprie azioni un’energia e una volontà decisionale e un oggetto passivo che subisce gli stimoli esterni. L’“intesa fisica” tra corpo e oggetto di cui parla Ilaria Gianni si esplica nella compressione di un abbraccio serrato tra i diversi materiali, che ingloba anche chi si relaziona percettivamente con queste sculture. Riguardo ad esse, si può concludere citando il testo di Sofia Dourron in catalogo: “Le loro strutture sono labili, vibrano con l’attrito dei corpi e con la loro energia, sembrano voler crollare. In esse non c’è garanzia di successo, nemmeno di sopravvivenza, le loro forme rispondono ai bisogni reali e alle possibilità dei corpi-oggetti che le compongono, esplorando combinazioni che incarnano un potenziale sempre latente, accovacciato nello spazio e nella materia. Assemblano oggetti, forze e soggettività in un costante divenire. Questa meticolosa manipolazione di Lamothe sul mondo materiale […] crea spazi indisciplinati che si oppongono non solo alle forme costruttive della modernità, ma si ribellano anche a quello che Malcom Ferdinand definisce «un modo coloniale di abitare», la cui violenza sottopone territori e corpi umani e non umani a un sistema di sfruttamento estrattivo. Ognuna delle quattro sculture che compongono Ojalá se derrumben las puertas funziona come uno spazio avvolgente e abitabile che disorganizza il sistema costruttivo egemonico e suggerisce un altro modo di concepire il nostro rapporto con il mondo materiale che ci circonda”.

Luciana Lamothe. Ojalá se derrumben las puertas, Padiglione Argentina, 60° Biennale di Venezia, exhibition view | © Matteo Losurdo