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L’opera di Luca Scarabelli si muove nell’orizzonte della quotidianità in quella dimensione indefinibile che Marcel Duchamp chiamò l’infrasottile, spostando l’attenzione sui piccoli eventi al limite dell’esperienza materiale delle cose.
Un linguaggio apparentemente semplice e dimesso, fatto di oggetti comuni, di immagini riciclate o, nel caso della pittura, di gesti minimi e leggeri che si confondono con le impronte temporali, un’economia segnica e tecnica che lascia spazio alla sospensione e all’attesa.
Le opere di Scarabelli sono come frammenti di un racconto aperto, mai finito, votato forse al fallimento e sicuramente al ripensamento, che ritorna sui suoi passi per prendere altre direzioni, sempre alla ricerca di una relazione con il mondo che non è mai data definitivamente. Ci si muove così in un terreno incerto, che attraversa linguaggi e memorie per incontrarsi in un tempo sospeso dove presente e passato si incontrano, dialogando. Lavori recenti richiamano quelli passati in una narrazione cacofonica che procede per salti: un andamento che è affine alle sue recenti sperimentazioni musicali – con Michele Lombardelli come Untitled Noise – che sono una parte non secondaria del suo lavoro, presentata in questa mostra con un live set.
Gli accostamenti di immagini o di oggetti – o di suoni – risultano in parte familiari e in parte estranei rivelando l’aspetto sconosciuto del quotidiano che suscita un sensazioni contrastanti, dal meraviglioso al pertubante, provocando stupore e disagio. Perché l’arte non è semplice interpretazione del reale ma possibilità di vedere le cose con un altro sguardo, oltre le convenzioni e le abitudini: così nei collage quali Istante inatteso (2016) o negli assemblage quali Antifragile (2017) o ancora in Monumento (Deja vu) (2011) o ancora Riposizionamento di un paesaggio (2011- 2017) inedita convivenza di una scala con un uccellino tassidermizzato e uno stuzzicadenti, le associazioni trasformano la banalità dell’uso e del consumo in un nuovo ordine simbolico.
In questa personale sono presentati dei lavori recenti, realizzati tra il 2015 e il 2017 con poche eccezioni precedenti. Il titolo è preso dall’omonima serie Gli anni profondi (2016) scatole di cartone aperte il cui contenuto, inaspettato – sfere di marmo, paillette variamente colorate, altre scatole di cartone vuote – provoca sentimenti stranianti, facendo ribalzare il concetto di vuoto ed evocando un senso di precarietà che caratterizza l’intera produzione dell’artista e in particolare una serie di recentissimi lavori pittorici – a olio su tela, qui esposti per la prima volta – della serie Tutti i doni (2017) in cui il colore, dipinto a rovescio, traspare sulla tela grezza come un’apparizione. Con un’attitudine surreale e disincantata, Scarabelli suggerisce un altro significato, effimero e momentaneo, all’apparente assurdità dell’esistente.
In occasione della mostra – realizzata nell’ambito del Festival FilosofArti – è stato realizzato un catalogo con i testi della curatrice Cristina Moregola e di Marco Senaldi di cui pubblichiamo degli estratti.
Luca Scarabelli
Opera Sistema Soggetto
Testi di Marco Senaldi
Di fronte alle opere di Luca Scarabelli si ha sempre la sensazione di non so quale strabismo, o almeno di una sorta di miopia, che però non parte dall’occhio dello spettatore, ma dalla cosa guardata. Al tempo stesso troppo presenti e troppo sfocate, troppo singolari e troppo sdoppiate, le sue opere – che si tratti di sculture, di dipinti, collage, installazioni, interventi musicali, performance o anche partecipazioni a progetti collettivi – corrono sovente il rischio, se prese isolatamente, dell’insignificanza: e lo corrono, si direbbe, consapevoli di farlo.
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Come per un filosofo, la cui architettura di pensieri si regge sull’inconfessabile sistema che essi finiscono per edificare, in parte a sua insaputa, così l’impareggiabile molteplicità di opere messe in campo da Scarabelli non solo si sorregge, ma finisce per librarsi, proprio in virtù del “sistema” a cui tutte rimandano e che tutte giustifica. Il cuore di questo sistema, pur collocandosi oggettivamente nel sito web dell’autore (in quanto catalogo esaustivo di tutte le sue opere/operazioni), non si limita certo ad esso, dato che invece parrebbe lui stesso parte del suo “vero sistema” di espressione, che risulta piuttosto intangibile e ogni volta dinamico, metamorfico, imprendibile e “sistematicamente” incompleto.
Questa incompletezza è certamente parte integrante del funzionamento del sistema: infatti, le opere di Scarabelli non rimandano le une alle altre per assonanza o per genere, perché appaiono sovente diversissime, oppure ostinatamente ripetitive. Esse, invece, si relazionano in virtù di qualcosa che a tutte sembra perennemente mancare, o, per citare ancora uno dei suoi straordinari titoli, costituiscono Nessuna unione di nessuna cosa con nessuna. È come se, nel “sistema” che dovrebbe chiudere tutta la produzione sotto un determinato sigillo di senso, la protagonista fosse proprio questa discrepanza, o meglio questa “nessunanza”, ovvero l’autorelazionarsi negativo di ciascuna cosa, non con un’altra, ma con se stessa.
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Che significa questo interminabile “additare”, questa “irrequietudine” se non l’intrinseca “dialetticità della forma artistica” che si nega nell’unità “di sé e della sua antitesi”?[1] Quest’inquietudine, alla fine, parla di noi: è lo smarrimento che ci prende quando guardiamo il ciondolare inutile del rotolo di nastro adesivo dentro il copertone di Deriva, 2014, o la gruccia appesa alla cassetta di plastica nera di Salto mortale, 2016, o l’immagine, strappata e nostalgicamente illeggibile, di Nostos, 2014: “cose” di cui non sappiamo più se sono definibili come arte, ma che, non appena facciamo per afferrarle e definirle, ci sfuggono di mano. Quello che allora si distanzia da se stesso non è più il “pezzo”, inteso come oggetto estetico, ma è l’individuo che lo guarda: il pezzo, come “elemento mancante”, non fa che confermare l’esistenza dell’”insieme vuoto” da cui è stato sottratto – cioè noi.
[1] G. Gentile, La filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 1937, p. 159.
Luca Scarabelli
Gli anni profondi
Fondazione Bandera, Busto Arsizio (VA)