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Annullare la distanza è l’azione espressa dalle fotografie esposte nella mostra “Di/Stanze” del fotografo emiliano Luca Gilli (Cavriago, 1965); l’esposizione, aperta fino all’8 aprile e a cura di Matteo Bergamini, presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano, già dal suo titolo, graficamente interrotto in due tronconi, crea connessioni semantiche rivolte verso altri significanti, introducendoci all’itinerario in cui queste opere ci condurranno.
Le ventun fotografie esposte provengono da due serie di lavori: Incipit e Blank, prodotte la prima nel 2015, durante la costruzione del padiglione della Santa Sede a Expo Milano, e fra 2008 e 2017 la seconda, frutto della ricerca su spazi in restauro e cantieri. Nella sua pratica fotografica Gilli si allontana dalla foto di architettura per accostarsi alla pittura, sfumando la prima nella seconda, facendo appunto venire meno quella distanza fra le due arti che solo a una disamina più attenta ritorna. Così queste foto ci appaiono, se viste da lontano, grandi tele monocrome o piccoli schizzi di pittura gestuale, mentre solo da vicino ci accorgiamo dei dettagli di architetture non ancora finite. Gilli gioca con lo zoom dell’occhio del visitatore creando uno scarto percettivo e chiede agli osservatori di soffermarsi e dedicare attenzione a dei rebus visivi. L’artista perviene a questi risultati sformando e alterando usi e format della fotocamera, sovraesposizioni e ritocchi digitali rielaborano e creano un ibrido fra il pixel e la pennellata. Questo intreccio di allusioni e di ambiguità, tutte dai colori abbacinanti o estremamente contrastati, sembrano parlare dell’imperscrutabilità e della misteriosità dell’immagine, della foto come scienza tecnicamente esatta ma opaca come arte.
Gilli ci presenta degli interni e delle stanze in cui le distanze sono appunto infrante, c’è un lavoro di superamento del limite del visibile che mette insieme vicino e lontano, dentro e fuori in un divenire, come appunto sono i cantieri edili, che modificano la percezione; l’artista trova infiniti muri dove non esistono angoli, superfici piatte dove il punctum è costituito da quell’elemento dissonante, di volta in volta una spatolata sul muro, delle canaline elettriche, delle scritte dei muratori sui muri. Forse, il ritocco cui il fotografo sottopone le immagini rende le superfici eccessivamente artificiose, rimarcando ancora una volta come la fotografia non sia, se mai lo è stata, una fedele riproduttrice della realtà, e contribuisce all’aura irreale che queste opere emanano. Forse, ciò che emerge maggiormente, invece, sono le superfici come rimedi per la visione veloce, implacabile e ininterrotta cui siamo sottoposti da media e social network; queste foto offrono una sospensione in cui poter vagare senza restrizioni, senza distanze.