
A distanza di due anni dalla mostra dedicatale alle Procuratie Vecchie, a Venezia, l’opera della scultrice Louise Nevelson (Kiev, 1899 – New York, 1988), una delle prime donne artiste del Novecento il cui lavoro ha ottenuto un vasto riconoscimento internazionale, torna ad essere oggetto di un’importante esposizione in Italia. In Palazzo Fava, a Bologna, fino al prossimo 20 luglio nella mostra eponima Louise Nevelson è possibile vedere una selezione esaustiva di sue opere di scultura, collage e grafica. La mostra inaugura un programma di mostre monografiche dedicate ad artisti storicizzati con cui l’Associazione Genesi, in collaborazione con Fondazione Carisbo e Opera Laboratori, intende rispondere al proprio scopo statutario di sensibilizzazione su tematiche sociali cogenti della nostra contemporaneità attraverso il medium dell’arte. Come ha evidenziato la curatrice Ilaria Bernardi in conferenza stampa, proprio quest’anno ricorre il 120° anniversario dell’emigrazione forzata negli Stati Uniti a cui la Nevelson, di origini ucraine, fu costretta per fuggire dalle persecuzioni contro gli ebrei nel suo paese d’origine, momento cruciale della sua vita a seguito del quale, con difficoltà, riuscì a farsi strada nella società americana e ad autodeterminarsi in quanto donna artista. Le sculture della Nevelson si presentano come assemblaggi di elementi lignei di reimpiego, variamente montati in composizioni tridimensionali monocrome più o meno articolate. La mostra presenta attraverso le cinque sale del piano nobile di Palazzo Fava le tipologie più ricorrenti e caratteristiche dei suoi lavori, attraverso quattro decenni di attività. Nella prima sala sono presenti alcune delle sue iconiche sculture-armadi in legno dipinto di nero opaco, che entra in forte contrasto visivo con i fregi con le Storie di Giasone e Medea dipinti da Annibale, Ludovico ed Agostino Carracci. Singole unità tra loro variamente differenziate si vanno a giustapporre ordinatamente in strutture che possono ricordare contenitori modulari, pensate non per girarvi attorno bensì per essere accostate alle pareti. L’enfasi, dunque, è posta sia sulla complessa diversificazione chiaroscurale, tipicamente “scultorea”, che connota il montaggio di scarti lignei, sia sull’effetto “pittorico” dato dall’espansione bidimensionale sulla parete. In effetti l’artista concepisce la scultura secondo criteri espressivi che forse hanno una qualche relazione, almeno sul piano della percezione visiva, con la tradizione occidentale dei cicli di rilievi scultorei caratterizzanti gli antichi edifici religiosi. In entrambi i casi si assiste ad uno sviluppo a riquadri giustapposti su una superficie verticale, che risponde ad un’orchestrazione complessiva molto attenta sia alla resa d’insieme, sia alla definizione particolareggiata delle singole “scene”.

L’accostamento potrebbe apparire forzato, dato che nelle sculture lignee della Nevelson non c’è un senso di lettura preferenziale, né si sviluppa una narrazione compiuta. Si direbbe che gli assemblage di pezzi di legno di varia natura e provenienza possano al massimo limitarsi a “presentare” qua e là qualche elemento più riconoscibile – una sedia di profilo, la gamba di un tavolo – allo scopo di dare risalto alle loro caratteristiche formali piuttosto che per implicare letture simboliche. Ma la mostra bolognese ha anche l’obiettivo dichiarato di evidenziare come nelle opere della Nevelson si possano individuare altri livelli di lettura: per quanto non sia mai davvero possibile riconoscere nelle sculture una volontà rappresentativa, di certo esse possono evocare suggestioni e lasciar supporre che una recondita trama di senso si celi, inintelligibile, negli elementi astratti, come suggerito in alcuni casi anche dai titoli scelti dall’artista, come, proprio nella prima sala, Night Sun I (1959), o Dark Sound (1968). Pare infatti che l’autrice si interessasse molto alle teorie alchemiche, alle simbologie connesse agli astri e al dualismo maschile-femminile, e le opere rimanderebbero implicitamente a questo ventaglio di possibilità semantiche. Secondo la curatrice, “Louise Nevelson opera sui reperti lignei un transfer di umanizzazione, in quanto il suo gesto di conservarli e utilizzarli in scultura è un atto di amore nei confronti della realtà teso ad avviare un processo di sacralizzazione femminile del reperto quotidiano, sulla scia delle esperienze demiurgiche degli sciamani e dei sacerdoti delle tribù indiane”. Nella piccola Sala Rubianesca è presentata una selezione di “porte”, opere rappresentative della produzione degli anni ’70, formate da assi di legno montate in forma rettangolare su cui lavora, stavolta, per stratificazione progressiva di elementi aggettanti, anch’essi in legno. Se nel prototipo di questa serie il risultato è visivamente affine a certa pittura concreta, per i profili irregolari dei tasselli in legno applicati alla “porta” che fanno pensare alla corteccia sbrecciata di un tronco d’albero che marcisce nel sottobosco (Senza titolo, 1959), nelle opere successive il gioco di incastri si fa serrato, a modulare dei pattern geometrici in cui ad esempio lo schienale di una sedia, posto in orizzontale, controbilancia una sequenza verticale di canne d’organo di diverse dimensioni (Senza titolo, 1959-60). Di nuovo la curatrice tiene a rimarcare ulteriori, possibili livelli di lettura, sostenendo come in queste opere sia tangibile “l’uso del legno come materiale per esprimere la condizione umana femminile, quella della domesticità (evocata dalla porta) a cui la donna è costretta dalla società a identificarsi ma a cui, grazie al gesto magico dell’artista, può liberarsi entrando in una differente dimensione”.

Se la caratteristica preminente delle “porte” è la stratificazione serrata di elementi in legno in composizioni a sviluppo verticale che dominano sull’osservatore, le opere esposte nella Sala Enea hanno piuttosto un ampio svolgimento orizzontale, titoli che alludono a paesaggi e una connotazione che torna ad essere maggiormente “pittorica”. Se City Series (1974) è composta da una fitta griglia ortogonale ricavata da un mobile per caratteri tipografici, i cui scomparti sono parzialmente coperti da pannelli sagomati e lisci, sulla parete di fronte Tropical Landscape (1974 circa) si compone di una batteria regolare di ventiquattro moduli riempiti da composizioni di tasselli dalle curve morbide e dalle punte aguzze, che evocano un immaginario astrologico. Sembra confermare questa suggestione la scultura Sky totem (1973) posta a poca distanza: in questo caso si tratta di un plinto composto da elementi parallelepipedi e cilindrici, eccezionalmente osservabile da tutti i lati, che peraltro include una rara rappresentazione mimetica, vale a dire un intaglio ad altorilievo di una figura angelica inquadrata da un’edicola. Le due sale seguenti danno conto di come la pratica della Nevelson si sia declinata negli anni anche nel collage, nell’assemblage, nella serigrafia e nell’acquaforte. Quando l’operazione di montaggio si traspone nelle due dimensioni i materiali variano maggiormente: i supporti sono sia lignei che cartacei, mentre gli elementi montati assieme possono includere fogli di giornale, lamine di metallo e carta vetrata. Le acqueforti inedite (1953) e le serigrafie rare (1975) presenti in mostra evidenziano come il vocabolario espressivo dell’artista si possa declinare in modo originale anche mediante tecniche di stampa in cui interviene in modo sperimentale. Completano la sala alcune fotografie che mostrano l’interno della Chapel of the Good Shepherd della St. Peter’s Church di New York, decorato nel 1977 dalla Nevelson con una serie di sculture bianche. Così in mostra trovano illustrazione anche questi esiti molto rari della sua ricerca, in modo da preparare l’approdo all’ultima sala, che presenta una preziosa scultura dorata, The Golden Pearl (1962). Negli anni ’60 alcuni dei consueti “armadi” color nero piombo si arricchiscono, come in questo caso, di una copertura integrale in foglia oro, che ne esprime tutto il potenziale latente. Coerentemente con il titolo suggestivo, i vari moduli che compongono l’opera paiono ostriche che racchiudono al loro interno, solo parzialmente visibili, delle “perle” intagliate e tornite. Tutto intorno, alcuni collage che montano insieme schegge nere e dorate. In una testimonianza dell’artista si legge: “L’oro è un metallo che riflette il grande sole. Di conseguenza penso sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il sole, la luna”. In questa sala giunge a compimento il processo alchemico che dalle prime fasi, la nigredo e l’albedo (le sculture nere e bianche), approda infine alla rubedo, coincidente con il compimento della trasmutazione dei metalli vili in oro, ma anche con il simbolico ricongiungimento del maschile e del femminile, del Sole e della Luna, della materia e dello spirito.

