“Volevo ritagliare l’azzurro del cielo”.
Questa celebre citazione di Carlo Scarpa tanto ricorda il lavoro di Ettore Spalletti, uno dei maggiori artisti italiani del secondo Novecento, che la galleria Lia Rumma di Milano ospita fino al 31 luglio 2022. Il progetto della mostra, redatto dall’artista prima della sua scomparsa e oggi curato
da Studio Ettore Spalletti, celebra i 12 anni dall’apertura dello spazio in via Stilicone, inaugurato nel 2010 proprio con una sua personale.
L’ingresso al piano terra coincide con la prima sala: solo due sculture metafisiche abitano l’ambiente ampio e generosamente vetrato. Si tratta di Colonna nel vuoto ed Ellisse: due forme essenziali, assolute, universali. Impossibile non pensare alle parole di Germano Celant: “Spalletti ha ridotto al massimo la presenza dei volumi, la cui formalizzazione, che dà corpo a una colonna o un parallelepipedo, una coppa o un bacile, dipende da uno sviluppo geometrico elementare, legato alle figure del quadrato e del triangolo, del cerchio e dell’ellisse”.
Bastano queste due opere per afferrare gli archetipi di ricerca di Spalletti: se l’ellisse si rivelerà la figura geometrica più comune e ricorrente, la colonna già tradisce quel desiderio della verticalità di evidente ispirazione tanto classica, quanto soprattutto architettonica. Proprio la disciplina dell’architettura contribuisce a comprendere il lavoro dell’artista abruzzese: la serie di opere intitolate Dittico, oro include, oltre al rosa, tre dittici in azzurro che sembrano aprire finestre sul cielo. Due campiture di colore si toccano a creare un’opera unica, la cui scansione binaria è sigillata da una preziosa cornice “come protezione”, rastremata e rivestita in foglia oro. In effetti, l’esecuzione perfetta e l’eloquente narrazione dei dettagli rendono le opere vere e proprie sublimazioni di architettura contemporanea, in perfetto accordo con l’algido spazio alla maniera neorazionalista. Il dialogo che si innesta è quindi spontaneo e non sforzoso e la luce naturale sigilla quell’abbraccio dei colori tanto caro all’artista.
L’intera produzione di Ettore Spalletti, di fatto, presenta una caratteristica peculiare e solitaria rispetto agli artisti del Minimalismo o dell’Arte povera a lui coevi: restaurare quella valenza spirituale, emotiva e “patetica” che sigilla il rapporto tra l’arte e il suo osservatore. Più che opere, l’artista compone infatti eventi di raccoglimento, spazi di condivisione del respiro. Ricerca quel contatto psicofisico, quel bisogno non obbligato di stimolare il silenzio sacrale e contemplativo come davanti ad un’antica icona.
Proprio l’attrazione che le opere suscitano costringe a guardarle da vicino e a scoprire un dettaglio straordinario: pur apparentemente affini alla pittura monocroma, presentano leggerissime increspature che rendono la superficie quasi marmorizzata. Questa particolare marezzatura deriva da un preciso processo compositivo per il quale l’artista stende, per circa 15 giorni alla stessa ora, una mano di colore, prendendo nota del suo tempo di essicazione. Quando l’impasto si sbriciola, la rottura dei pigmenti rende la superficie pittorica un tessuto di crepe di fughe. Se da un lato il rimando è contemporaneo e macroscopico al Cretto di Gibellina di Alberto Burri, dall’altro è impossibile non pensare agli straordinari cicli ad affresco di Giotto di Bondone, principe dell’azzurro, come se quel crackle derivasse dalla superficie invecchiata di secoli. Si evince così che, dopo la tecnica, basta il colore: non a caso gran parte dei titoli coincidono con la descrizione della materia che costituisce le opere.
La tavolozza di Spalletti si dispiega nella lunga libreria al secondo piano, giunta a Milano dopo l’ultima personale nel Principato di Monaco. È affollata da quasi 1500 libri “muti” di carta velina intrisa nei suoi colori tipici: partendo dall’azzurro, colore dell’aria, la cui magia deriva dal suo trovarsi “solo in una realtà impalpabile, che non è superficie, che è profondità”, si incontra il rosa, colore “in continua mutazione che non ha una sua fissità alimentandosi degli umori delle sue condizioni spirituali”. Infine il “colore dell’accoglienza”, il grigio, che può coesistere con tutti gli altri colori, con i quali genera le sfumature.
“Andare ogni giorno in studio, passeggiare all’interno, guardarsi attorno.” Questo il rapporto con l’arte per Spalletti. “Accorgersi d’improvviso di un colore che si avvicina, provare a fermarlo, sentire ancora la forma, pensare alle linee della geometria: orizzontale, verticale, obliqua, curva. Poi rompere la geometria stessa, la sua rigidità, riempiendola con una materia che, come fumo, si frantumi in pulviscolo sottile”. L’opera d’arte è quindi un oggetto atmosferico, risente dell’aria e della luce che la circonda, abita e respira lo spazio. Questa è la poesia demiurgica di Ettore Spalletti.