ATP DIARY

LIVE WORKS 2025 | Centrale Fies

I fellow della Free School of Performance parlano delle loro identità cangianti, raccontano storie di oppressione e di rinascita. La Centrale di Dro è un crocevia di culture, e quest'anno la lingua franca è la musica.
Dengue Dengue Dengue | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

“This is not a theatre”, è la scritta che questa estate accoglieva i visitatori sugli stendardi appesi alla facciata della centrale idroelettrica trasmutata in castello medievale – un lascito della Prima guerra mondiale, quando venne camuffata per evitare che gli austriaci la considerassero un obiettivo militare – che ospita il Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee di Centrale Fies, a Dro (TN). E invero questo luogo, con le sue articolazioni interne e la sua proposta fuori dai canoni, è ben lontano dall’archetipo di un teatro tradizionale. Lo dimostra la grande varietà di eventi performativi che ospita ogni estate, in un fitto calendario che ha sempre avvio con Live Works SUMMIT: la restituzione dei lavori sviluppati da un gruppo di artist* variegato per background e provenienza geografica – quest’anno erano Adam Seid Tahir, Klara Kofen in collaborazione con Cameron Graham, Hot Bodies aka Gérald Arev Kurdian, Tewa Barnosa in collaborazione con Ghenwa Noiré, Chōri Collective, Omar Gabriel, Noha Ramadan –  partecipanti al programma di residenze a cadenza annuale che prende il nome di Free School of Performance. Nel weekend lungo di Live Works, le loro proposte, sviluppate con il supporto curatoriale di Simone Frangi e Barbara Boninsegna, sono state presentate al pubblico e all* artist* selezionat* per l’edizione del prossimo anno, il cui percorso nella Free School ha avuto inizio proprio con questa esperienza: una full immersion che ha incluso anche dei talk con l’antropologa Elizabeth A. Povinelli e la storica e scrittrice Emma Dabiri, la partecipazione dei guest artist Deena Abdelwahed, Dengue Dengue Dengue, e Caterina Barbieri & Space Afrika e l’inaugurazione, proprio in quei giorni, della mostra collettiva Undomesticated Ground, con opere e interventi di Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, Elizabeth A. Povinelli, Théophile Peris, Marcos Kueh, Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird. Della mostra, che rappresenta la conclusione di un’importante trilogia ispirata al pensiero di Stacy Alaimo, abbiamo discusso con i curatori.

Caterina Barbieri & Space Afrika, Last Track (w/ MFO and Ruben Spini) | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

“Come a teatro” a Fies si raccontano storie e spaccati di vita attraverso rielaborazioni drammaturgiche, ma all’insegna di un alto grado di sperimentazione, che colloca queste esperienze collettive in un territorio ibrido, in cui i linguaggi più canonicamente associati alla sfera teatrale si intersecano con quelli della performance, della danza e della musica. E quest’anno proprio la componente della ricerca musicale ha assunto una particolare centralità, a partire dal fatto che i tre guest artist hanno tutti proposto eventi genericamente definiti “concerti”, ma in un’accezione ampia che va dai dj-set di Deena Abdelwahed e Dengue Dengue Dengue – e il duo peruviano, che pratica una Tropical Bass contaminata con le più varie tradizioni musicali sudamericane, spinge molto anche sulla componente video, con immagini digitali che alternano vedute a volo d’uccello generate mediante IA di città Inca arroccate sulle Ande e modellazioni in cgi di idoli precolombiani – all’esperienza plurisensoriale di Caterina Barbieri & Space Afrika, che coniuga un fitto tessuto musicale e un utilizzo immersivo degli effetti visivi. In Last Track (w/MFO and Ruben Spini)voce e chitarra definiscono un tema delicato, sognante, che si sfuma nel riverbero, per poi essere inghiottito in un ciclone di bassi crepitanti via via più intenso, ma il tema sopravvive e riappare ciclicamente, come un’ancora a cui aggrapparsi per non essere trascinati via. Gli interpreti scompaiono in dense nuvole di fumo di scena, trapassate soltanto da laser statici verdi, poi luci a rapida intermittenza seguono l’incedere dei bassi in un sommovimento tellurico inesorabile. Tra le attivazioni performative della mostra Undomesticated Ground, è da considerare come appartenente alla stessa macrocategoria l’esibizione dell’ensemble composto da Adam Christensen (voce e fisarmonica), Tom Wheatley (violoncello) e David Aird (pianoforte e clarinetto), carica di un patetismo struggente, esacerbato da dissonanze e cadenze trascinate, mentre la luce di un faro entra dalle ampie finestre della Sala Comando, e per la suspension of disbelief diventa un tramonto perfetto. Anche tra i fellow c’è chi attinge ai codici della musica contemporanea, come Hot Bodies aka Gérald Arev Kurdian, che in The Transition Pieces incorpora vari brani prodotti per un concept album in preparazione per costruire una narrazione in cui ricopre il ruolo “di un cantore digitale, o di una sacerdotessa post-internet”, la cui voce solista è accompagnata da un coro di “cloni vocali”, che cantano di mutevoli identità di genere in un mondo a sua volta interessato da trasformazioni epocali. Tra i suoi riferimenti culturali, i miti mai così attuali delle Metamorfosi di Ovidio e la fantascienza di matrice femminista.

Hot Bodies aka Gèrald Arev Kurdian, The Transition Pieces | photo credits Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Omar Gabriel, Nine Night | photo credits Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

Protagonisti di Nine-Night di Omar Gabriel, Agitu Ideo Gudeta Fellow, sono invece il pianoforte e il berimbau, uno strumento tradizionale di origine africana ma giunto in Brasile con la tratta degli schiavi, composto da un arco di legno flesso che tende una corda metallica e da una zucca vuota che funge da cassa di risonanza. E la diaspora africana è una delle plurime traiettorie che si incrociano nel corpo multi-identitario dell’artista, che racconta in un lungo monologo musicato le nove notti di veglia e di festa rituale che in Jamaica accompagnano il viaggio dei defunti verso l’aldilà, per poi rievocare altre storie e pratiche culturali sviluppatesi tra le due sponde dell’Atlantico, come la Capoeira, arte marziale nata nelle piantagioni con le movenze di una danza, per non destare sospetti tra gli schiavisti. Intriso di un lirismo arcaico è il canto a cappella di Tewa Barnosa e Ghenwa Noiré, accompagnato soltanto dal rumore ritmico di una piccola mola per la macinatura fatta ruotare su se stessa, che risponde alla pratica Al Raha diffusa nel Nord Africa, nella performance In Yesterday’s Forecasts. Qui si narra della storia e delle ferite della Libia e del suo popolo attraverso il richiamo alla mitica pianta del Silfio, che in tempi antichi garantì la prosperità della ragione perché sfruttata nella cucina e nella medicina greco-romana, ma che in seguito si estinse per eccessivo sfruttamento, per poi, in tempi più recenti, essere adottata dal regime fascista come simbolo della colonizzazione del Paese. Il grande trauma dei campi di concentramento italiani, insieme a quello dei disastri naturali antichi e recenti, sono rievocati attraverso immagini tratte da archivi visivi e poesie che raccontano l’oppressione del periodo coloniale, mentre lo spettro di una profezia infausta dell’oracolo di Delfi che maledisse la terra libica viene bilanciato da una nuova profezia, quella del poeta libico della seconda metà del Novecento Said Sifaw, che preconizza un futuro di nuova prosperità.

Tewa Barnosa in collaborazione con Ghenwa Noiré, In yesterday’s forecasts | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Klara Kofen con Cameron Graham, fake and extint | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

Una simile attenzione verso dinamiche coloniali, stavolta indagate tra il qui e ora della centrale-castello e i lontani “maritories”, territori acquatici come le Isole Chincha e Mauritius sfruttati dall’Occidente per le loro risorse naturali, si registra in fake & extinct di Klara Kofen in collaborazione con Cameron Graham. Ad essere indagate nei dialoghi di strani personaggi umani e non umani come l’Arciduca e il Burocrate sono le interconnessioni morfologiche e politiche attraverso l’acqua tra paesi distanti o tra diverse aree di un territorio (i fiumi che connettono le dolomiti all’Adriatico e che alimentano la European Power Grid grazie a luoghi come la centrale di Dro, nata in un territorio storicamente conteso). Se le proposte di Tewa Barnosa e Klara Kofen cercano le radici del presente nei mali dell’antico e del recente passato, più proiettata verso un futuro speculativo che conserva solo labili tracce del nostro tempo, ormai prive di significato, è la performance di Noha Ramadan, che rappresenta il primo atto di un più ampio lavoro in preparazione, dal titolo And we shimmered as we crossed from one reality to another…. Tre schermi orizzontali mostrano figure mascherate che si muovono in sincronia, ma nel totale silenzio, su di una spiaggia desolata, mentre la performer si muove nell’oscurità davanti e dietro gli schermi ed interagisce con essi. Lo scenario più rassicurante di un centro benessere asiatico, in cui lo spettatore si ritrova a compiere un rituale di purificazione dai toni New Age, è l’ambientazione di Chōri Dance Asian Wellness di Chōri Collective. I tre performer, rispettivamente di origine coreana, thailandese e pakistana, attingono alle proprie storie personali e alle tradizioni culinarie dei propri paesi di origine per parlare di come, al di là degli stereotipi, i sapori – e gli individui – possano armonizzarsi tra loro pur mantenendo le reciproche identità.

Noha Ramadan, And we shimmered as we crossed from one reality to another… | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Chōri Collective, Chōri Dance Asian Wellness | photo credits Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

Questo racconto si conclude un’alba. In Dawn di Adam Seid Tahir il pubblico viene invitato ad entrare in un parallelepipedo riquadrato al centro del grande stage della Sala Turbine e isolato dall’esterno, e si ritrova a condividere lo spazio con un centauro afro-nordico e non binario, che abita quel luogo e quel tempo del cielo in cui il giorno e la notte si incontrano, come esprimono le dichiarazioni che sta incidendo su una piattaforma di metallo (“twilight enby – afro vicking / new identity unlocked”). L’ambiente si abbuia, l’aria si satura di fumo e il centauro comincia a muoversi con un incedere regolare, in direzione dei fari che ora si mostrano accesi agli angoli opposti, facendosi strada tra gli spettatori, che lo seguono, lo perdono e lo ritrovano nella nebbia dorata. Nella mitologia norrena, due cavalli, Skinfaxi e Hrímfaxi, trainano rispettivamente attraverso il cielo i carri del giorno Dagr e della notte Nótt. Il primo ha la criniera splendente, il secondo sparge schiuma dalla bocca, che si trasforma in rugiada. Tahir galoppa tra i lati opposti del firmamento, la sua silhouette si staglia in controluce contro i fari solari, poi dopo alcuni passaggi comincia a sollevarli e a prenderli uno a uno con sé. Ora è lui a irradiare luce nella notte: si dirige prima verso un’altra pedana, e lì dona al mondo la rugiada, che lascia colare dalla sua bocca; si dirige poi verso l’ultimo faro angolare, divenendo con esso un tutt’uno rilucente, e infine si estingue. La notte si compie, e già si appropinqua l’aurora.

Cover: Caterina Barbieri & Space Afrika, Last Track (w/ MFO and Ruben Spini) | foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies

Adam Seid Tahir, Dawn | Foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies
Adam Seid Tahir, Dawn | Foto di Alessandro Sala, CESURA LAB. Courtesy Centrale Fies