C’è un bambino sulle spalle di Garibaldi. Fa bang bang con le dita, come si fa da piccoli quando si gioca alla guerra. Sotto di lui, scolpito nella pietra, c’è scritto: DUCE dei Mille. L’opera si chiama One, ma parla di molti: di quelli che sono venuti dopo, di quelli che hanno ereditato senza studiare, di chi confonde la fiction con la storia e la retorica con la realtà.
Garibaldi – l’eroe dei due mondi, il santo laico della patria unita – non è mai stato del tutto limpido. Qualcuno lo ha persino accostato alla malavita, al sottobosco di potere dove si mescolano ideali e coltelli. Ma si sa, in Italia l’epica ha sempre un’ombra storta. E allora quel bambino armato di niente, in equilibrio sul monumento, non è solo un simbolo: è un piccolo dubbio che ride.
One non è solo una riflessione generazionale: è una piccola beffa scolpita nella pietra, una mossa gentile per smontare il pantheon nazionale con la leggerezza di un gioco infantile. Un gesto che sta in equilibrio tra tenerezza e sfida, tra l’innocenza del bambino e la disillusione di chi lo guarda dal basso.
Forse è proprio questa l’immagine che più somiglia a Seasons, la mostra diffusa che Maurizio Cattelan ha portato a Bergamo, a cura di Lorenzo Giusti. Un ciclo di opere che scorre come il tempo, o meglio come le sue ricadute: ogni stagione dell’arte di Cattelan è una variazione sul lutto: pubblico, privato, storico, personale. Ma non c’è mai tragedia piena, semmai una malinconia leggera, che somiglia a quel silenzio che viene dopo una battuta troppo vera per far davvero ridere.
A partire da November, esposta al Palazzo della Ragione, un tempo sede della giustizia cittadina e oggi teatro della sconfitta sociale. La scultura ritrae un senzatetto che si urina addosso su una panchina scolpita in marmo statuario Michelangelo: il materiale delle divinità e dei sepolcri, ora usato per immortalare la fragilità estrema. Sembra dormire, ma è impossibile capire se stia sognando o se sia stato inghiottito dalla pietra e dalle convenzioni dell’arte che pretende di rappresentarlo. La finta urina sul pavimento è un atto involontario che resta impresso più della memoria storica del luogo. Ma questa traccia di umanità – biologica, viva – è anche una provocazione che mette a disagio. Quanto vale un senzatetto scolpito in marmo? Quanto costa la sua fragilità esposta in galleria? Chi può permettersi di acquistare il dolore, di speculare sulla rovina?
Nel mondo dell’arte contemporanea – e soprattutto nei circuiti internazionali dove Cattelan è rappresentato da gallerie come Perrotin e Marian Goodman – persino la marginalità viene raffinata, monumentalizzata, venduta. È su questa tensione irrisolta che l’opera punta il dito: la compassione estetizzata, la pietà che si espone con l’allure del lusso.
Alla GAMeC, Empire si presenta come un mattone chiuso in una bottiglia di vetro. È un’immagine semplice, eppure basta a raccontare un intero naufragio. Un potere abortito, un’utopia rimasta in bozza. Per me – che a Padova vedo ancora l’ombra lunga di Toni Negri – è impossibile non pensare a Impero, quel libro scritto con Michael Hardt in cui si immaginava un ordine globale senza centro né margini, dove il potere si spalmava come una crema sulla faccia del mondo. Flessibile, decentrato, apparentemente democratico. E soprattutto, capace di inglobare anche la ribellione.


Cattelan, però, ci mette davanti una sintesi diversa. Più secca. Più amara. Niente rete, niente flusso: solo un mattone fermo, silenzioso, imprigionato nel vetro. Lontano anni luce dalla moltitudine in movimento, qui l’Impero è un immagine in uno smartphone, un relitto senza vocabolario. Nessuna rivoluzione in vista (se non da tastiera), solo un messaggio chiuso in bottiglia, troppo solido per fare danni, troppo fragile per liberarsi. La bottiglia, trasparente e muta, assomiglia a quei messaggi lanciati in mare quando non si sa a chi scrivere. Rimane lì, in attesa. Oppure no: magari non aspetta nessuno. È solo un gesto, una di quelle cose che si fanno quando non si sa più cosa fare.
In questo senso, Empire diventa una riflessione tenera e spietata sul fallimento delle utopie. Un fermo immagine sull’inazione, ma senza rancore. Cattelan non accusa, non sprona: osserva. Con la freddezza di chi ha capito che a volte è il potere stesso a sabotarsi, e che certi sogni si consumano nel loro stesso annuncio. E in quell’equilibrio assurdo tra mattone e vetro, tra forza e stallo, c’è tutta la malinconia di un tempo che ha smesso di credere nel futuro, ma non ha ancora trovato qualcosa con cui sostituirlo.
Accanto, c’è No. Una copia di Him, ma con un sacchetto in testa. Dentro, c’è Hitler. Bambino, inginocchiato. Sembra pregare, o forse solo aspettare. Ma il volto non si vede, e questo cambia tutto. L’opera è stata censurata in Cina, e quel sacchetto è rimasto addosso, come una benda su qualcosa che non si vuole – o non si può – più guardare.
Così No diventa ancora più inquietante della sua versione originale. Non solo per quello che mostra, ma per quello che non lascia vedere. È un’icona negata, o forse un tentativo di protezione. Non si capisce bene chi stia proteggendo chi: se noi da lui, o lui da noi.
In quell’occultamento c’è qualcosa di familiare. Una specie di riflesso del presente, dove è più facile coprire, censurare, dimenticare, piuttosto che affrontare. Una nevrosi fatta di omissioni, come se bastasse chiudere gli occhi per salvarsi la coscienza. E allora sì, forse è meglio ridere. Ma è quella risata che viene quando non si sa bene se si sta scherzando o se si è perso completamente il senso delle proporzioni.
Ma è forse con Bones, allestita nell’ex oratorio di San Lupo, che la mostra trova la sua vibrazione più profonda. Al centro dello spazio, un’aquila abbattuta. Marmo statuario Michelangelo, ancora una volta: materia di eternità per raccontare una resa. Ali spiegate, corpo riverso: niente volo, nessuna gloria. Solo la gravità, e tutto quello che trascina giù.
Non è un’aquila qualunque. Cattelan si ispira a quella che oggi riposa nei depositi della Tenaris Dalmine: una scultura marmorea commissionata nel 1939 per celebrare il discorso che Mussolini tenne agli operai in quello che chiamò “sciopero creativo”. Una formula che fa quasi sorridere, se non sapessimo com’è andata a finire. Anche lì, come con Garibaldi, c’era un duce da celebrare, un popolo da guidare, un simbolo da scolpire.



Poi è venuta la guerra, e il dopoguerra, e quell’aquila è stata spostata tra i monti, nella colonia estiva dell’azienda a Castione della Presolana. Da emblema del regime, è diventata metafora di libertà e natura incontaminata. Un classico italiano: cambiare cornice e sperare che l’immagine si aggiusti da sola. Quando la colonia ha chiuso, anche l’aquila ha perso il suo posto. È finita in un magazzino, tra altri frammenti del passato. E la Dalmine, oggi, è anche questo: un archivio silenzioso che conserva le cose che non si vogliono più guardare, ma nemmeno buttare via.
In Bones, Cattelan riattiva quel fantasma. Non lo denuncia, non lo celebra: semplicemente lo mostra per quello che è. Un’aquila ridotta all’osso. Non più emblema di potenza, ma scultura spoglia, senza più ideologia da reggere. Un monumento alla caduta, forse anche al vuoto. Il luogo in cui è esposta – un tempo cimitero, oggi soglia tra devozione e oblio – amplifica questo senso di stanchezza definitiva. Non c’è redenzione. C’è una resa silenziosa, che non fa rumore nemmeno quando ci crolla davanti.
Sulla facciata dell’oratorio, un’incisione recita: Divino Lupo, conduttore dei bergamaschi. Anche il lupo, come l’aquila, è una figura solitaria. Dicono che guidi, ma nessuno sa dove, come l’industria, come la politica, come l’arte quando diventa troppo seria, anche lui si è perso per strada, e ora ci guarda da lontano. Immobile. In attesa di essere dimenticato con grazia.
I giornalisti accerchiano Cattelan, gli fanno domande, e lui risponde parlando di squadre di calcio. Si fa inseguire, svicola, ride, li fa ridere. C’è qualcosa di disarmante in quella leggerezza. Nessuna spiegazione, nessuna teoria: solo aneddoti, battute, gesti. Eppure, sotto la superficie, si sente un rumore sordo. È la risata di chi sa che non c’è più niente da salvare.
Alla fine, un gruppo di loro gli chiede di farsi un selfie. E lui accetta, naturalmente. È un momento glorioso, ma anche comicamente tragico. Sembra una vignetta di una rivista che non esiste più. L’arte è lì, dietro di loro, in posa. Forse Cattelan è il più serio di tutti, proprio perché non smette mai di ridere.
Quello che rimane, alla fine, è la sensazione che stiamo celebrando qualcosa che forse non è mai esistito, o che ci siamo inventati per tenerci su. Le sue stagioni sono già finite, o forse non sono mai iniziate. E noi siamo qui a raccoglierne le rovine, con un sorriso a metà, come bambini sulle spalle di statue equestri, che fanno bang bang con le dita e non sanno bene chi stanno mirando.
A Bergamo, in contemporanea alla mostra Seasons di Maurizio Cattelan, a cura di Lorenzo Giusti.
CECILIA BENGOLEA. Spin and Break Free – Villa d’Almè
JULIUS VON BISMARCK. Landscape Painting (Mine) – Dossena
FRANCESCO PEDRINI. Magnitudo – Roncobello
EX. Mountain Forgets You – Verso il nuovo Bivacco Frattini
Per date e dettagli: GAMeC



