
Ferrara è una di quelle città italiane in bilico, di quelle che conservano ancora in parte lo splendore di epoche passate e ormai lontane, ma che troppo spesso sembrano non farne tesoro. Della gloriosa città degli Estensi rimangono il Castello, le mura e i palazzi sopravvissuti al terremoto che ha colpito la regione nel 2012.
Ad essere stato completamente dimenticato in città sembra invece il fervore culturale del tempo. Gli spazi e i momenti dedicati alla cultura si limitano alle mostre di Palazzo dei Diamanti, che poco o nulla guarda al contemporaneo, al festival di Internazionale e ai concerti di Ferrara Sotto Le Stelle.
Per questo Riaperture Photofestival stupisce. L’evento, giunto alla sue terza edizione, porta infatti alla luce un patrimonio architettonico rimasto nascosto al pubblico attraverso un linguaggio artistico contemporaneo quale appunto la fotografia. E’ proprio per la contemporaneità della ricerca artistica che Simon Lehner e Zoe Paterniani si differenziano positivamente da tutti gli altri artisti coinvolti nella rassegna arricchendo il linguaggio e il mezzo fotografico di una componente di sperimentazione che mette alla prova il concetto stesso di visione.


All’interno di Palazzo Prosperi – Sacrati, Lehner, giovane fotografo austriaco recentemente premiato a Paris Photo 2018, esplora i concetti di paternità, amore e costruzione dell’identità nella sfera familiare. Nel loggiato rosettiano, che un tempo apriva ad un ampio cortile oggi ridotto ad una piccola striscia di terreno, le fotografie pendono sopra le teste del visitatore costretto ad alzare la testa, come un bambino di fronte ad un adulto, e ripararsi gli occhi dalla luce del sole per poterle osservare. Lehner racconta un rapporto paterno iniziato a 9 anni a partire da una domanda, la stessa che da il titolo al progetto e che esprime la volontà e il desiderio di conoscere gli eventi accaduti durante gli anni trascorsi dall’abbandono del padre: How far is a lightyear? (quanto dura un anno luce?). Al linguaggio fotografico tradizionale il giovane fotografo, classe 1996, unisce la sperimentazione 3D. Ne risultano immagini ibride nelle quali il reale, le foto scattate da lui da bambino, si sovrappone, mescola e confonde ad un immaginario fittizio frutto della tecnologia. In strutture di legno leggero sorrette da fili simili a ragnatele, le fotografie si posizionano talvolta al centro, altre lateralmente, altre ancora sul supporto stesso, occupando sia il fronte che il retro. E’ la fine dell’autorialità della cornice. Ne risulta una narrazione scomposta, una sorta di puzzle, del quale lo spettatore è artefice quanto l’artista. Come l’occhio fotografico anche lo sguardo perde il riferimento centrale per costruire una storia del passato costruita nel futuro. E’ in questo paradosso che Lehner sfida il limite della fotografia legato al tempo ricreando un ritratto del padre in uno spazio tangibile.


Sfida i limiti della visione anche Zoe Paterniani che nelle stanze completamente spoglie della Caserma “Pozzuolo del Friuli” presenta il progetto “Discovery” dedicato alla riflessione sui rapporti e meccanismi della visione tra Europa e Medioriente. Il velo, considerato troppo spesso come elemento di minaccia culturale diventa, per la giovane fotografa di origini pesaresi, catalizzatore di ciò che non può essere visto grazie proprio alla sua capacità di nascondere. Tra vecchi banconi del bar e tavolo da biliardo impolverati, la Paterniani occupa una degli ambienti più piccoli messi a disposizione all’interno del vasto edificio chiuso nel 1997, ma con le sue fotografie lo spazio sembra espandersi così come lo sguardo. Abbandonata la cornice, primo limite visivo, le fotografie sono libere di entrare in contatto con lo spazio circostante e i suoi fruitori. Ed ecco allora che alcuni scatti entrano in dialogo con un elemento strutturale dell’edificio, come accade per l’immagine posta vicino alle scale e al corrimano, e che le fotografie si trasformino in opere letteralmente sfogliabili imponendo così allo spettatore il gesto fisico dello svelamento dell’immagine sottostante. Nel tentativo di tradurre in fotografia il paradigma della non-visibilità la Paterniani, come Lehner, sfida la concezione classica della fotografia appropriandosi dei suoi strumenti, delle sue potenzialità e dei suoi limiti per creare un immaginario altro che in questo caso unisce in una sorta di nuova dimensione due mondi. E’ in questo unione che i valori considerati assoluti della conoscenza occidentale vacillano aprendo ad un’immagine futura diversa. La possibilità di fruire fisicamente le fotografie aggiunge però un elemento ulteriore, quello di messa in discussione dell’opera d’arte intoccabile, destinata alla conservazione. Le immagini sono infatti qui destinate al deterioramento a causa della mancanza di una protezione dagli agenti esterni di un palazzo ormai in disuso da decenni e dal tocco dei visitatori, tanto temuto nei luoghi dell’arte.


