La mostra Altre Tempeste di Olivo Barbieri (al Museo Casa Giorgione di Castelfranco Veneto fino al 2 novembre 2025, promossa da OMNE – Osservatorio Mobile Nord Est e curata da Stefania Rössl, Massimo Sordi e Matteo Melchiorre, progetto sostenuto da Strategia Fotografia 2024 del Ministero della Cultura) si configura come un laboratorio metavisivo, che interroga la complessa relazione tra l’eredità artistica e la realtà di un territorio divenuto simbolo della dispersione urbana. 
L’invito a esplorare il LAND – inteso come luogo di memoria stratificata e di identità collettive – diviene l’occasione di sviluppare un dialogo serrato tra storia e contemporaneità.
Il progetto prende il suo titolo e la sua chiave ermeneutica dalla Tempesta di Giorgione (Giorgio Barbarelli, 1478–1510), opera cardine della storia dell’arte cinquecentesca e del Rinascimento veneto. Il pittore di Castelfranco ha elevato il paesaggio da elemento sussidiario a soggetto autonomo e lirico. Il suo gesto fu fondativo e precorse i tempi. Agli esordi del XVI secolo, rivolse la natura verso lo specchio del sentire umano, facendola diventare anche un veicolo di significato. Aprì la strada alla pittura di paesaggio e gettò le basi per le successive evoluzioni del genere nel Seicento e oltre, lasciando un’eredità in cui l’ambiente naturale è stato progressivamente riconosciuto come una forza estetica capace di reggere l’intera impalcatura dell’opera.
Laddove i suoi predecessori e molti contemporanei relegavano l’ambiente naturale a un ruolo ancillare, di sfondo scenografico o di semplice riempitivo, Giorgione lo elevò a presenza che custodisce e rilascia forze, conferendogli un peso iconografico pari, e talvolta superiore, a quello delle figure umane. Questa innovazione è una vera e propria trasformazione concettuale che sposta l’asse della rappresentazione.
Come Giorgione anche Barbieri ha indagato in modo sottile le trame dei paesaggi, le aperture spaziotemporali che legano i territori passati a quelli odierni, le presenze coloristiche intese come tracce di qualcosa che permane e agisce sulle coscienze. 
Barbieri estende la sua indagine visuale da Venezia alla terraferma, immergendosi nella realtà della città diffusa, entro un paesaggio che si presenta ai suoi occhi come una massa edilizia indistinguibile, con una struttura uniformemente piatta e senza picchi, sia nella sua estensione laterale che nella sua elevazione. Al centro di questa riflessione si colloca l’area tra Padova, Treviso e Vicenza, un crocevia economico che ostenta una straordinaria ricchezza culturale (dalle architetture storiche alle opere d’arte), in netto contrasto con uno dei più alti tassi di urbanizzazione e traffico d’Europa.
Barbieri utilizza il colore come lente critica, in un dialogo diretto con la tradizione cromatica rinascimentale veneta, da Giorgione a Veronese. La luce si trasforma in strumento di riflessione, capace di rivelare le tensioni visive e la stratificazione storica insite in luoghi emblematici. L’indagine procede per giustapposizione ininterrotta. Dettagli ingranditi di dipinti celebri si affiancano a vedute di architetture straordinarie – come la Tomba Brion di Carlo Scarpa ad Altivole o la Gypsotheca Canoviana di Possagno o la Villa Parco Bolasco – e ai paesaggi banali del presente.
Ciò che interessa all’artista è la modalità con cui lo sguardo prende forma. Attraverso l’analisi microscopica dei dettagli pittorici veneziani, Barbieri offre al visitatore una chiave per rileggere le altre tempeste del contemporaneo, i mutamenti ambientali e le trasformazioni culturali che modellano il Veneto. Il risultato è una visione inedita che fonde la continuità storica con la turbolenza del presente.
L’allestimento ideato da Stefania Rössl e Massimo Sordi arricchisce l’esperienza nel Museo con una duplice cornice concettuale. L’apertura della mostra è affidata dai curatori a una selezione di circa cinquanta riproduzioni a stampa della Tempesta giorgionesca, risalenti dall’inizio del Novecento a oggi. La variazione nelle rese di stampa, nei toni e nei tagli di queste riproduzioni restituisce visivamente l’enorme e mutevole impatto dell’opera sull’immaginario collettivo.





L’atto di riprodurre un dipinto sui libri o su qualsiasi supporto a stampa è, per sua natura, un esercizio di traslazione e tradimento. Un dipinto come la Tempesta di Giorgione è un oggetto fisico tridimensionale, governato dalla stratificazione dei pigmenti, dalla rifrazione della luce sulla sua superficie materica e dalla resa ottica del tonalismo originale. La sua riproduzione in stampa, al contrario, è un’entità planare, prodotta dalla sintesi sottrattiva dei quattro colori tipografici (CMYK) su una superficie assorbente e opaca.
Ogni riproduzione subisce la tirannia della tecnologia del suo tempo, dall’offset alla rotocalcografia o ad altre tecniche di stampa. I colori non sono mai identici. Per esempio, le dominanti virano, i rossori del crepuscolo giorgionesco si spengono o si saturano eccessivamente, i verdi si appiattiscono. L’equilibrio sottile del Tonalismo, che fonde figure e paesaggio, viene frantumato in una serie di interpretazioni meccaniche. I fruitori che conoscono l’opera solo attraverso questi surrogati hanno a che fare con l’icona filtrata attraverso la melanconia del ciano o l’aggressività del magenta. Nell’immaginario collettivo, la Tempesta è una serie di interpretazioni successive. Una riproduzione in bianco e nero del primo Novecento enfatizza il romanticismo delle rovine, mentre una riproduzione successiva a colori potrebbe enfatizzare l’enigmaticità dello sfondo, amplificando il senso di mistero senza ombre che il dipinto genera. La cinquantina di Tempeste esposte in mostra è la prova che l’autorità dell’opera, una volta immessa nel circuito editoriale, non risiede più solo nel dipinto materico originale, ma nella stratificazione delle sue riletture mediali. La riproduzione su libro diventa un dato critico da analizzare. In ogni epoca chi studia un’opera d’arte passa inevitabilmente attraverso il filtro delle lenti tecnologiche e interpretative del proprio tempo, spesso avendo a che fare con un’icona plastica e seriale che, pur allontanandosi dalla verità ottica, ne amplifica però in modo esponenziale la presenza culturale.
Nel transito di Barbieri da Venezia verso la terraferma, il soggetto creativo si trova immediatamente di fronte alla sfida della città diffusa, lontano dal centro storico definibile e gerarchico, dentro un’entità spaziale che impone un nuovo regime di sguardo. Questo paesaggio è analizzato e percepito come un territorio uniformemente indifferenziato, che annulla, nella sua indistinzione, ogni significativa differenza tra la dimensione orizzontale (l’estensione planimetrica) e quella verticale (l’elevazione strutturale). Tale piattezza dimensionale non è solo un dato urbanistico, ma funge da preparazione metafisica, predisponendo l’occhio all’incontro con l’immobilità assoluta insita nel capolavoro del passato, letto attraverso la lente di una negazione estetica e di un’attesa atemporale. Il gesto fondamentale richiesto ai fruitori non è la decifrazione immediata, ma il lasciarsi portare da un tempo prolungato e contemplativo, così che l’immagine riesca a disvelarsi come forza agente, oltre la propria passività museale. Contrariamente alle aspettative del sublime e del dramma, il dipinto di Giorgione è dominato da una quiete crepuscolare che prelude all’evento, dove il lampo di luce guizza come un serpente (cristallizzato, però, come in una ripresa fotografica), così che il fulmine si trasformi in un dettaglio e la violenza atmosferica in un’immobilità prefigurata priva di pathos. La donna nuda, intenta ad allattare, incarna una presenza matriarcale, che agisce negando la narrazione. L’uomo con l’asta interroga un buio che non risponde. Il centro pare una miriade diffusa che sfugge da un punto focale, un infinito immobile dove l’artista cela il suo magnete occulto. La difficoltà di comprensione risiede proprio nella sua privazione assoluta. Le figure diventano elementi integrati nell’ambiente, non più centri narrativi autonomi. Sono nel paesaggio, non semplicemente davanti ad esso.




Questa sospensione atemporale, creata dall’ambiente, è la vera innovazione giorgionesca. Tale visione è intrinsecamente legata al tonalismo, accentuata dalla tecnica pittorica non basata come nella tradizione fiorentina sul disegno, nella costruzione della forma attraverso la gradualità del colore e l’atmosfera. Questa fusione sfumata (o sfumato veneto) annulla i contorni netti tra figura e ambiente, permettendo al paesaggio di avvolgere e definire le presenze umane. Il colore e la luce diventano i collanti che uniscono cielo, terra e figure in un’unica unità vibrante. Anche in I Tre Filosofi (1509 circa), la composizione boschiva e rocciosa, la grotta e la luce radente sono inseparabili dal loro significato: il paesaggio è un teatro di meditazione, un soggetto attivo che partecipa all’interrogazione filosofica delle figure.
I capolavori di Giorgione sono opere spogliate di tragico, angoscia, realtà e, soprattutto, di logos parlante. Nella Tempesta palpita un silenzio che si dilata, che crea un disagio estetico sublime. Dentro pulsa un mistero senza ombre, un enigma che non utilizza il contrasto chiaroscurale ma l’uniformità della quintessenza della Natura stessa per manifestarsi. Le due colonne spezzate si svincolano dalla funzione di memento mori. La loro rottura funge da ponte sottile tra le rovine e la città irreale. Esse incarnano, con le figure e gli elementi, una solitudine estrema, una speculazione monistica che abolisce l’emotività. La Tempesta diviene così uno dei rari casi in cui la presunta verità ha accettato un nome, pur dichiarandolo sotto un velo, una sparizione non veramente avvenuta. La sua inaccessibilità è dovuta al fatto che non contiene alcun residuo di passioni umane, e per questo, aborrendo il seme dell’azione, l’opera nasce e resta silenziosa, un abisso contemplativo che sfida l’obiettivo dell’arte e della reinterpretazione contemporanea.
Altre Tempeste si pone come un’indagine stratificata sulla persistenza e impenetrabilità dell’immagine, attuando un transito critico dalla narrazione a qualcos’altro. Come la città diffusa impone un’uniformità spaziale che annulla la distinzione tra orizzontale e verticale – una condizione di omogeneità territoriale precedentemente presa in considerazione – così le fotografie esplorano l’immutabilità attraverso la dissoluzione della figura e del tempo.
L’archetipo Tempesta, quindi, non più solo enigma pittorico, è considerato un paesaggio tridimensionale senza figure che attesta l’attuale memento dell’impenetrabilità visiva. L’opera si accosta al verde Veronese (di cui Barbieri sottolinea l’invenzione nella medesima area d’azione nel Veneto), un colore utilizzato come campo cromatico di riferimento per la percezione paesaggistica. Questa relazione cromatica si traduce in una serie di immagini (No Fun e altre tempeste) che culminano in un enorme occhio vegetale in negativo e nel verde Veronese in negativo, suggerendo che la verità dell’immagine non risiede nella rappresentazione diretta, ma nella sua inversione spettrale, nel suo specchio ottico.
L’indagine sulla luce e sul colore è storico-scientifica. Il Memoriale Brion di Carlo Scarpa, di per sé una meditazione sull’architettura funeraria e sulla relazione tra acqua e cemento, viene qui attraversato da luce artificiale sotto l’influenza concettuale dell’architetto e scienziato settecentesco Giovanni Rizzetti. La fotografia oltrepassa la mera documentazione, rifrange il luogo attraverso la lente del fisico di Castelfranco Veneto, la cui diatriba settecentesca con Isaac Newton sull’interpretazione dei fenomeni ottici e della natura della luce (il trattato De luminis affectionibus) è centrale. Barbieri crea un cortocircuito temporale, applicando il modello di colore RGB sulla composizione scarpiana. Fonde la speculazione ottica pre-illuminista con la sintesi cromatica dell’era digitale, e richiama la geometria mistica della Vesica piscis.



Le figure storiche, invece di essere celebrate, sono sottoposte a una critica della loro permanenza. La statua di Giorgione a Castelfranco Veneto viene catturata da Barbieri al di là della sua fissità monumentale. Agisce come riflesso sull’acqua, distorto e mosso dal passaggio casuale delle papere sulla superficie liquida del fosso. Questo gesto demitizzante si rafforza con un’ulteriore immagine che presenta la statua priva del nome e del volto, operando un’ablazione iconica che la spoglia di identità per ricondurla a pura forma, a tridimensionalità acromatica in sintonia con la poetica neoclassica di Antonio Canova – “lo scultore nato morto”, secondo la folgorante definizione di Roberto Longhi – dove il bianco marmoreo simboleggia l’essenza atemporale.
Il fulmine, che nella Tempesta era l’evento annunciato ma non temuto, assume per Barbieri una connotazione di rottura prometeica. Si evoca la lettura di Aby Warburg sul Rituale del serpente, in cui il moderno Prometeo (lo Zio Sam in cilindro) ha strappato il lampo alla natura, imprigionandolo nei cavi elettrici. L’istantanea catturata per le vie di San Francisco non mostra il fulmine divino, ma la sua domesticazione tecnologica: i fili elettrici che corrono sul cilindro del cercatore d’oro simboleggiano l’elettricità catturata che distrugge il pensiero mitico e simbolico. La civiltà delle macchine, distruggendo lo spazio per la preghiera e per il pensiero con il contatto elettrico istantaneo, ci fa ripiombare in un caos senza distanza.
L’intera serie fotografica di Altre Tempeste è, in definitiva, un esercizio di demitizzazione e ricomposizione. Si va oltre la narrazione e l’emozione, così che i referenti storici, scientifici e mitologici vengano presi in causa per indagare cosa sia l’immagine nell’era della sua riproducibilità e della sua saturazione ottica. Le tempeste “altre” non sono eventi atmosferici, ma turbolenze generate dall’incontro tra luce storica e luce artificiale, tra l’immobilità e il caos comunicativo contemporaneo.
Olivo Barbieri
Altre Tempeste
Museo Casa Giorgione, Castelfranco Veneto
Dal 26 settembre al 2 novembre 2025
A cura di Stefania Rössl, Massimo Sordi e Matteo Melchiorre
L’intera serie fotografica è documentata nel volume Altre Tempeste, edito da Quodlibet e con i testi di Stefania Rössl, Massimo Sordi e Matteo Melchiorre, e le trentadue opere prodotte andranno ad arricchire le Civiche Collezioni Museali.
La chiusura della mostra, con More Details in the Landscape degli studenti ISIA di Urbino, estende la metodologia di Barbieri all’educazione, dimostrando come l’analisi del dettaglio possa generare nuove prospettive di lettura dei luoghi. Domenica 2 novembre, alle ore 14:30, la suggestiva cornice di Villa Parco Bolasco ospiterà un seminario imperdibile intitolato “Storia dei processi fotografici tra tecnica ed estetica”.
A guidare l’incontro sarà il fotografo Giorgio Di Noto, con la partecipazione straordinaria di Olivo Barbieri.
Il seminario si prefigge di smarcarsi dalle tradizionali narrazioni cronologiche per offrire una prospettiva inedita: un’esplorazione della storia della fotografia incentrata sulle trasformazioni tecniche. Il percorso traccerà l’evoluzione del medium, partendo dalle prime ingegnose sperimentazioni per la fissazione permanente dell’immagine, passando per le successive rivoluzioni chimiche e ottiche, fino all’avvento dell’industria fotografica.
L’appuntamento rappresenta un’occasione cruciale per analizzare come le determinazioni tecniche (materiali, chimica e meccanica) non siano mai state neutre, ma abbiano plasmato attivamente le forme, gli stili e il linguaggio espressivo e narrativo delle immagini. Attraverso questo focus critico, si cercherà di comprendere in che modo l’evoluzione della fotografia abbia dialogato e interagito con le mutazioni della cultura visiva e della società in cui si è sviluppata.


