Language is a Virus, mostra curata da Adriana Rispoli, continua a diffondersi nelle strade di Stoccolma fino al 14 giugno, grazie ai manifesti creati dalle cinque artiste italiane invitate. La mostra, commissionata dall’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, è stata allestita all’esterno, inondando lo spazio urbano e colpendo con messaggi provocatori lo spettatore ignaro. Per esprimere la voce delle artiste partecipanti, la pagina Instagram dell’Istituto ha pubblicato dei brevi video che raccontano non soltanto l’origine delle parole che contraddistinguono i manifesti, ma anche le pratiche e i media utilizzati.
Francesca Grilli adotta un linguaggio multidisciplinare, che spazia dalle arti visive a quelle performative. In occasione della mostra, l’artista ha scelto di proporre un estratto di Sparks, performance realizzata con un gruppo di bambine in occasione della Biennale di Tallinn. Attraverso la lettura della mano, le bambine assumono il ruolo di adulte, rovesciando la convenzionale relazione tra infanzia e maturità. Nel video tratto dalla performance, le voci si sovrappongono rendendo il messaggio incomprensibile, misterioso e perturbante: solo la frase “I have a question for you” riecheggia nel silenzio.
Loredana Longo stravolge appieno la trilogia, nella cosiddetta “estetica della distruzione”. La potenza distruttiva del linguaggio emerge nel lavoro The Hope still Lives and the Dream shall never die, tratto dalla serie Carpet: il tappeto, che nella performance viene incendiato, racchiude un messaggio propagandistico. Recuperando le frasi dei politici, si mette in evidenza come il linguaggio possa essere utilizzato come arma e come un oggetto – il tappeto – possa diventare meta-linguaggio. Marinella Senatore si contraddistingue per una pratica fortemente partecipativa. Il video pubblicato riflette sulla corporeità e sul movimento come linguaggio e narrazione: danzatori e musicisti della School of Narrative Dance esplorano in maniera corale e collettiva le proprie energie per creare un messaggio e un senso comune.
Anche Marzia Migliora riflette sul rapporto tra individuo e quotidiano e sul legame che intercorre tra individuo e collettività. In particolare, la critica mossa al capitalismo individualista si esprime nel manifesto scelto, tratto da The Spectrum of Malthus, così come nell’animazione pubblicata sui social.
Rosy Rox riflette sulla femminilità e sul peso che, in un momento di quarantena domestica, ricade sulle spalle degli individui. I piedi fasciati dell’artista escono da una cassa di legno su cui emerge la scritta “Fragile”: in un’atmosfera sospesa e simbolica, enfatizzata dall’immagine in bianco e nero scelta per il video, si definisce la condizione ambivalente, frammentata e metamorfica che le donne vivono alla ricerca della propria identità femminile. Attraverso la dicotomia tra le parole Agile e Fragile scelte per i manifesti, Rosy Rox parla di sé ma allo stesso tempo di tutti noi.
Abbiamo posto alcune domande a Maria Sica, Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura che vive e lavora a Stoccolma, e ad Adriana Rispoli, la curatrice del progetto.
Qual è stato il riscontro del pubblico in merito al progetto, considerando il periodo “particolare” in cui ci troviamo, e quali sono i suoi sviluppi futuri?
Maria Sica: I cartelloni sono stati predisposti per le strade del centro di Stoccolma, quindi questo ha permesso che potessero essere visti da un gran numero di persone. Dato il periodo, appunto, “particolare” e la diffidenza a passare del tempo in luoghi chiusi come musei e gallerie, la scelta di portare la mostra fuori è sicuramente risultata vincente. Quanti tra coloro che hanno incontrato le opere di Francesca Grilli, Loredana Longo, Marzia Migliora, Rosy Rox e Marinella Senatore mentre passeggiavano, tornavano a casa da lavoro o si recavano in centro per un appuntamento sono rimasti colpiti da queste opere, contattandoci via social per avere maggiori sulla iniziativa e alcuni anche per chiedere informazioni sulle artiste e il loro lavoro. Abbiamo anche notato che l’interazione sui social, col passare dei giorni, e’ cresciuta sensibilmente ogni qual volta abbiamo postato le immagini delle singole opere. Il momento che stiamo vivendo ci ha portato quindi a riflettere ulteriormente sulle modalità organizzative di una mostra, pensando anche a strade alternative, come abbiamo già sperimentato con “Language is a virus”.
Aggiungere Adriana Rispoli: La dinamica pubblica e in un certo senso democratica di questa mostra è stata sperimentata da me in molte occasioni, dal museo Madre al Porto Fluviale a Roma. Ma in questo caso sposandosi con l’emergenza del Covid e l’urgente necessità di dar voce specificamente alle artiste donne mi piacerebbe che diventasse una sorta di serie per valorizzare all’estero il potenziale delle artiste italiane dal Nord al Sud e diventare davvero “virale” diffondendolo in altre città d’Europa.
Oltre al linguaggio, la mostra ha indagato la questione femminile e il patriarcato: ad oggi, secondo lei, l’arte ha saputo dare una risposta significativa alla necessità di andare oltre il patriarcato per giungere ad un sistema equo e di parità? e cosa potrebbero fare ancora (sia le artiste che gli artisti) per sensibilizzare e rispondere a questa complessa questione?
Adriana Rispoli: E’ indubbio che le donne abbiano storicamente meno opportunità degli uomini in ambito professionale, tuttavia non credo in posizioni categoriche, ma nel potere di ogni individuo a prescindere dal genere. La mostra non indaga propriamente la questione femminile, ma vuol dar voce ad artiste donne in uno specifico momento in cui nuovamente, il carico massimo ricade su di loro. Prima ancora che con i messaggi delle artiste, da donna ho voluto intrinsecamente evidenziare nel concept della mostra questa atavica ‘ingiustizia’. Ciò avviene a mio avviso in ogni campo e ogni ambito sociale. L’arte ha il dovere di porre l’accento sui problemi della società e la disparità tra i generi è uno di questi, oltretutto basti pensare alla sproporzione che esiste nella stessa storia dell’arte, ancora più che nell’attuale mondo dell’arte!!!!
Com’è possibile, in un mondo in cui le fake news sono all’ordine del giorno, ritrovare un rapporto con il linguaggio più “sano”, basato su una chiara capacità di comunicazione e non di disinformazione?
Adriana Rispoli: Il linguaggio è il primo strumento di conoscenza dell’uomo e la base sulla quale si fonda una comunità. Secondo la prima filosofia greca infatti il logos contiene una triplice realtà: legge, parola, pensiero. Siamo coscienti oggi, grazie alla filosofia del linguaggio quanto esso sia del tutto relativo, intrinsecamente ambiguo, congenitamente influenzato dal contesto. Per cui la stessa parola “chiara” potrebbe essere un paradosso. Allo stesso tempo il linguaggio e la semiotica sono la base della comunicazione ed implicano una responsabilità nei confronti dell’interlocutore. Come tu sottolinei un linguaggio “sano” presupporrebbe un fondamento etico. A mio avviso l’arte però è al di sopra di queste riflessioni per la sua necessaria libertà. Ha facoltà di stravolgere la trilogia segno – senso – significato ed è proprio questo in fondo il senso delle parole di William Burroughs “il virus più pericoloso era il linguaggio” da cui prende le mosse questa mostra.