Con quelle che il loro creatore stesso chiama “pseudo-fotografie”, Paolo Bufalini ha costruito una mostra in cui gli spettatori sono chiamati ad assumere i valori dell’indeterminatezza e dell’ambiguità come premesse fondanti per capirne la visione. Il testo che segue, è frutto di questa ambiguità.
Probabilmente per apprezzare a pieno “Argo”, la mostra di Paolo Bufalini, artista romano di stanza a Bologna, bisogna visitarla diverse volte, sicuramente più di quanto ci si aspetterebbe. Si tratta infatti di una mostra le cui stesse opere non sono esattamente quello che sembrano e per questo motivo si è naturalmente portati (oltre che chiamati) a entrare in sintonia con la dose di vaghezza e ambiguità che sostiene la mostra e il progetto intero.
Si tratta di un progetto per la cui comprensione, ammettiamolo (ma senza sensi di colpa), è fondamentale attrezzarsi prima attraverso la lettura del comunicato stampa che ce la spiega. Dopodiché, è altrettanto vero, che, una volta capito di che si tratta, la tua immaginazione (evviva) e il tuo senso di stupore, prendono liberamente il volo.
“Argo”, inoltre, non solo ci conduce a spaziare con la nostra mente immaginando tante ipotesi e vissuti possibili, ma “obbligandoci” in qualche modo a capire le procedure che la sottendono, ci fa entrare in contatto con temi assolutamente stringenti perché contemporanei, ovvero quelli dei nuovi dispositivi tecnologici.
Vediamo come.
Il comunicato stampa ci spiega che “Argo” è un progetto espositivo che nasce dall’applicazione di strumenti di intelligenza artificiale generativa a una serie di dataset costituiti dalla digitalizzazione degli album di famiglia dell’artista, provenienti da un arco temporale che va dagli anni Cinquanta ai primi Duemila. Una volta costituiti i dataset, Paolo Bufalini li ha utilizzati per il training di modelli generativi text-to-image in grado di riprodurre le sembianze dei soggetti rappresentati negli album.
Ammetto che dopo la lettura di questo incipit del comunicato stampa ho dovuto necessariamente studiare e ricercare molte di queste espressioni sul web e cercare di capirci.
In realtà è tutto molto intuitivo. Come spiega l’artista stesso in una sua intervista, si tratta di fare rielaborare dai dispositivi dell’intelligenza artificiale dei dati, delle informazioni, in questo caso un archivio di immagini visive, di foto, in modo che ne esca qualcosa di altro. Ed è poi qui che un discorso apparentemente freddo come quello tecnologico si trasforma in uno puramente poetico e artistico nel momento in cui mette in moto una relazione con lo spettatore che ne verrà a un certo punto coinvolto intellettivamente, sensorialmente e spiritualmente.
In uno spazio piccolo come quello dello Spazio Aperto di Palazzo Ducale a Genova, la mostra presenta 9 immagini stampate su carta cartone e incorniciate. Queste immagini ritraggono soggetti umani, tre figure totali in tutto, ovvero il padre, la madre e la sorella dell’artista. Paolo Bufalini ha voluto utilizzare questo materiale così intimo e familiare per indagare il campo dell’identità e della sua sfuggevolezza.
Il titolo stesso “Argo” ha origine dal nome del cane di Ulisse che nell’Odissea lo riconosce al suo rientro dopo il lungo viaggio seppure in sembianze non sue. (Ulisse era vestito da contadino).
Quello che ha fatto l’artista è stato quindi elaborare, sulla base di questo archivio di immagini, dei modelli generativi attraverso l’A.I. che fossero in grado di riconoscere e riprodurre le sembianze delle persone contenute in quegli album per poi applicarle a delle immagini nuove.
Due temi sono quindi qui richiamati. Senza dubbio quello del viaggio, il viaggio che l’artista compie indagando l’archivio di famiglia, e che, andando all’indietro nel tempo fino a prima della sua nascita, va anche oltre il reale imboccando le strade dell’immaginario. C’è poi, di pari peso, il tema della rappresentazione applicata all’argomento dell’identità e del suo riconoscimento in termini di stabilità e precarietà.
L’elemento dell’identità, della sua performance e del suo riconoscimento è centrale in questo progetto e, come stiamo per vedere, ad esso rimandano tutti gli aspetti chiamati in causa in questa mostra.
Ma ritorniamo all’esperienza della visita. All’interno dello spazio, appese ai muri, ci si trova di fronte a queste immagini che siamo convinti essere dei classici ritratti fotografici. I soggetti hanno gli occhi chiusi e apparentemente stanno dormendo. Quasi immediatamente, però, siamo catturati da qualcosa che non ci convince completamente e veniamo avvolti da un senso dell’inafferrabile, dell’incompiuto e del vago. Si è portati ad avvicinarsi all’immagine, a metterla a fuoco, a cercare di capire se quello che un attimo prima si era sicuri di aver visto è in realtà quello o tutt’altra cosa. E se sì, cosa.
In un’intervista a Neu Radio l’artista spiega: “quando mi sono chiesto che tipo di immagini volevo ottenere, ho optato per la posa del dormiente. I soggetti sono tutti ritratti nel sonno. (In questo modo) lo stato del sonno fa sì che il soggetto da un lato sia lì fisicamente, ma, in un altro senso, sia in un altro mondo, sia al di là”. Immagine, rappresentazione e identità sono quindi intrecciati: la prima, non ritraendo il reale, ovvero cio’ che è accaduto, entra nel regno dell’immaginario, del possibile, dell’indefinito. Caratteristiche proprie dell’identità.
L’effetto formale ed estetico di queste opere a questo punto viene in aiuto. Nonostante il lavoro sia consistito nel filtrare i modelli generativi attraverso le immagini degli album di famiglia, “esse tuttavia non sono identificabili come tali, ma “ , sottolinea Bufalini, “ come una sintesi di diversi mondi e diversi input visivi” risultanti, cioè, dalla fusione di grane fotografiche e registri stilistici nuovi e preesistenti che si fondono, riproducendo, in ultima analisi, delle immagini fondamentalmente ibride.
A questo punto ci si rende conto come l’immagine che stiamo osservando perda i suoi connotati, i suoi limiti, i suoi confini. Nella posa del dormiente, il soggetto non è più vigile e la sua identità si sfalda, diventa liquida. Attraverso l’uso di questi dispositivi tecnologici, spiega l’artista, “le immagini sono quasi dei rendering, i soggetti rappresentati tendono all’astrazione”. Inoltre, continua, “ questi ultimi diventano dei referenti dei soggetti reali.” Ovvero, “ci sono dei referenti, ma questi referenti non sono ritratti per come sono ma sono quasi più delle ipotesi sulla base dei soggetti reali”.
L’aggettivo liquido poc’anzi utilizzato non ha fatto capolino a caso giacché oltre a permeare tutta la mostra nelle sue varie declinazioni legate ai concetti sopra affrontati di indeterminatezza e fluidità, viene richiamato dall’unica opera non ritrattistica della mostra. Si tratta di un’installazione che Paolo Bufalini ha scelto di collocare al centro dello spazio espositivo e che s’intitola “Health” , composta da una teca con dentro due ampolle che contengono ciascuna un liquido giallo che verte al verde fosforescente collegate ad un apparato di natura chimica. Veniamo poi a scoprire che il liquido è oro tratto dalla fusione di un anello e orecchini. La soluzione chimica fa sì che il processo di dissoluzione non sia irreversibile. Diventa chiaro il legame col tema della famiglia, visto che in genere i gioielli sono cimeli di famiglia, così come l’associazione all’elemento della trasformazione e al gioco tra invisibile e visibile. Inoltre, di fronte a degli oggetti così familiari ed evocativi – seppur presenti sotto un altro stato fisico rispetto all’originale – ci porta ad una relazione di immedesimazione più forte.
Infine, in maniera piuttosto sottile, fa capolino il tema della morte, seppur vista in chiave trascendente e positiva. Come spiega l’artista, “ (questo tema) è presente nella misura in cui (il processo reversibile della soluzione chimica che ha disciolto l’oro) ci fa pensare a un processo di rigenerazione e al fatto che le nostre immagini ci sopravvivono.”. La connotazione estremamente fluida e trasformativa che sottosta al progetto e che anima il processo creativo di queste opere richiama quindi la visione “di un qualcosa che c’è stato, che non c’è più ma che ci sarà in un’altra forma.”
Personalmente sono stata particolarmente impressionata dalla portata di questo progetto, trovandolo estremamente peculiare e di valore perché se da un lato sperimenta con elementi della contemporaneità che anche se ci appaiono lontani in realtà permeano ormai la nostra vita quotidiana, dall’altro pone in maniera evidente le basi per lavori futuri che sono convinta e mi auguro per l’artista, saranno altrettanto meritevoli.
* le parole attribuite a Paolo Bufalini sono tratte da una sua intervista on line rilasciata a NEURADIO.
Aprirà al pubblico giovedì 12 dicembre alle ore 18.00 presso Fondazione Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia (Sala Berti – Refettorio delle Monache dell’ex Convento di San Mattia, Via Sant’Isaia 20, Bologna) la mostra personale di Paolo Bufalini (Roma, 1994) dal titolo Argo, curata e prodotta da Sineglossa e realizzata con il sostegno di SIAE e Ministero della Cultura, nell’ambito del programma Per Chi Crea, in collaborazione con il Dipartimento di Chimica dell’Università di Torino, sotto la supervisione del Dr. Andrea Jouve.