Dopo un lungo periodo di incertezze, attese e proclami roboanti la scorsa settimana si è conclusa la 25esima edizione di miart (16-19 settembre), la prima fiera d’arte europea a riaprire in presenza, sotto la direzione di Nicola Ricciardi.
Il 2021 è ancora un anno difficile e in piena transizione per le vicende che ben conosciamo, ma nel 1991 quando i Queen cantavano per la prima volta The show must go on, le dinamiche del sistema dell’arte imponevano ad artisti, galleristi e curatori una riconversione etica, sociale ed economica dovuta alla crisi e all’indebolimento del mercato. Da qui nacque anche, tra le altre accezioni del momento, quel processo che avrebbe portato poi alla costruzione di un nuovo rapporto sperimentale incentrato sulla relazione tra l’opera e lo spettatore.
L’anno precedente, quello della 44° Biennale del 1990, la mostra Damien Hirst fu chiusa per la fuoriuscita di formalina dal contenitore in plexiglass, Jeff Koons si ritraeva insieme alla moglie Ilona Staller in una scultura a grandezza naturale e tra i giovani artisti spiccava lo sculture di origine indiana Anish Kapoor.
Questa edizione di MiArt 2021 non è sicuramente la Biennale, anche se hanno provato a farla passare come tale, ma oggi, vista la particolarità del periodo storico- sanitario e i cambiamenti in atto, con il rientro del pubblico dopo quasi due anni di assenza forzata, ci saremmo aspettati qualcosa di più.
Possiamo dire che quasi nulla è cambiato da prima dell’emergenza covid, poiché per le galleria è sempre più difficile andare avanti, anche se i commenti degli addetti ai lavori sono quasi sempre positivi, negli stand girano sempre gli stessi nomi a scapito degli artisti emergenti e i lavoratori dell’arte contemporanea continuano a essere poco considerati, nonostante tutto l’impegno di AWI.
In questo periodo cosa ha impedito ai registi e agli amministratori delle fiere di provare a immaginare qualcosa di diverso, di delocalizzare l’intera filiera del contemporaneo o più semplicemente di riconvertire un format oramai sempre più asettico e artificiale in un tentativo partecipato e realmente aperto e dedicato agli artisti, agli spazi indipendenti e alla comunità? Insomma per dirla con le parole di Tancredi, personaggio de Il Gattopardo, «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
Le difficoltà legate alla pandemia tutt’ora in corso, non hanno segnato differenza alcuna tanto che lo spettacolo dei giorni scorsi è andando avanti senza se e senza ma, in modo canonico, con pochissime novità e soprattutto in concomitanza con la fiera di Basilea, un aggravante che forse poteva essere evitato visto che mancavano all’appello galleristi come Massimo De Carlo, Giò Marconi, Alfonso Artiaco, Magazzino, Gallleriapiù, Galleria Dello Scudo, Ex Elettrofonica e Tiziana Di Caro, mentre delle realtà presenti solo una cerchia non tanto grande ha rappresentato il contemporaneo (di buona e alta qualità), per il resto abbiamo visto un po’ di tutto.
Per quanto riguarda l’allestimento generale di Fiera Milano City, logisticamente rimaneggiato e situato al 2° e unico piano del Padiglione 4, è evidente il miglioramento rispetto agli anni scorsi, spazialmente più organizzato e dinamico.
In generale un bilancio positivo possiamo attribuirlo agli stand come: P420, Sara Zanin, Lia Rumma, A Palazzo gallery, Monica de Cardenas gallery, Galleria Umberto di Marino, Galleria Vistamare, Kaufmann Repetto, Renata Fabbri, Galleria Conceptual, Studio SALES di Norberto Ruggeri, Galleria Franco Noero, Francesco Pantaleone, Galleria Zero, Galleria Raffaella Cortese, Francesca Minini, Gian Enzo Sperone e Peola Simondi. In molti penseranno: i soliti noti!
Forse in momenti di crisi basterebbe mettere da parte il profitto e le dinamiche di mercato, rileggere la storia, riaprire gli archivi e ripensare il passato per ricostruire un futuro così come leggiamo nel titolo profetico della 44° edizione della Biennale di Venezia: Dimensione Futuro – L’artista e lo Spazio.