Prima premessa: ciò che unisce i corpi alleati è la comune percezione del disagio e della precarietà, che coincide anche con il riconoscere l’appartenenza a una distinzione gerarchica basata sul principio di esclusione e differenziazione (cioè quelle diffuse matrici neoliberali come classe, eterosessualità e bianchezza).
Seconda premessa: l’alleato di questa teoria si impone di ricomporre le fratture della disgregazione sociale abbattendo le gerarchie di cui sopra. Lo fa per tappe, mai per ordine, cercando riscontro al di la del sé. Terza e ultima premessa: per il difficile slittamento delle necessità individuali in più complessi atti collettivi, qualsiasi alleanza è da intendersi pratica utopica.
Lungi dal ridurre la teoria a un linearismo inadeguato, il risultato delle poche, precedenti battute è da intendersi come una snella parabola entro cui collocare il complesso pensiero filosofico di Judith Butler e la teoria dell’autrice da cui il progetto al Teatro Massimo di Cagliari prende il nome. Nonostante l’apparente risultato pessimistico infatti, è vero che l’alleanza ha tanto il valore della lotta per una forma sociale auspicabile quanto, e qui potrebbe crollare l’utopia, si esprime come quel momento di coabitazione in grado di conferire struttura alla stessa soggettività. Una frattura che permette di ribaltare le posizioni consolidate e insistere sul principio di rivendicazione dell’individuo. Ma che soprattutto impone una metodologia che procede per multipli, non lineare appunto, rizomatica come il procedere butleriano.
L’Alleanza dei corpi – quella della mostra – cita questa costruzione di narrazioni eteronome, propone sguardi incrociati su discipline differenti, utilizza il supporto video, performativo, sonoro per raccontare la potenza dell’autodeterminazione nel quotidiano. Lo fa Massimo Carozzi, già membro di Zimmerfrei, con La mia casa è la mia testa (tranne quando piove) (2016), in cui il suono dello spazio domestico diventa mimesi della soggettività. Ed è forse per questo che lo si ascolta nello spazio intimo della cuffia, ripiegati sulla consolazione del sé, protetti da qualsiasi disturbo ambientale – non solo sonoro –.
Lo ribadisce Life Track (2015) di Vajiko Chachkhiani, in cui lo sguardo fisso di un recluso in una struttura di riposo incontra lo sguardo libero dello spettatore. I ruoli sono facilmente ribaltati ed è subito attivata la dimensione precaria del potere: l’interpretazione più plausibile di come, alla certezza del sé, non corrisponda la sicurezza della propria condizione ma più spesso paura, angoscia e frustrazione. Sentimenti da redimere in Leonardo Boscani per cui l’alleanza è collaborazione e quest’ultima atto di resistenza. In Carne di Cabaddu (2017) lo spazio di coercizione è quello della prigionia: dove la distribuzione della precarietà è al suo massimo infatti, l’unico esercizio di libertà è sul proprio corpo. E un campionario di tatuaggi self-made diventa l’iconografia della rivendicazione, quantomeno parziale, della soggettività.
La sensibilizzazione procede performativa e due tatuatori lavorano per trasferire su altrettante poltrone in pelle il tatuaggio dei loro proprietari, ex detenuti. Ma l’operazione non è così immediata: la pelle morta non si può tatuare e se il segno – in un modo o nell’altro – rimane sugli arredi, la rivendicazione si fa viva e il corpo politico. Così è un attimo passare dall’autodeterminazione del sé all’alleanza di un intero popolo. L’allusione al corpo resistente e resiliente ben si presta a echeggiare la conservazione dell’identità sarda di una nota teoria: la Costante resistenziale, con la quale l’archeologo Giovanni Lilliu intendeva lo storico conflitto del popolo sardo contro il colonialismo. Impegnata contro altri nemici infatti, quella lotta sembra qui raccontare la stessa tenacia e predisposizione caratteriale. Benché l’Alleanza dei Corpi non si inscriva dichiaratamente nella riflessione, l’analogia è presto giustificata: la teoria dell’archeologo è ripresa nell’omonimo progetto pluriennale inaugurato da Lorenzo Giusti per il MAN nel 2015 e curato, nei suoi ultimi episodi, dalla stessa Micaela Deiana.
Comunque i tre lavori inaugurali non esauriscono il progetto. Che si costruisce invece sul modello della time based exhibition e rispetta i ritmi teatrali del contesto in cui è ospitata: si propone di aggiornarsi in corso d’opera, aggiunge e sostituisce tasselli visivi e si impegna a costruire una biblioteca partecipativa sulla tematica.
Dunque di quell’alleanza utopica sono attivi quantomeno i presupposti: incontro, cooperazione e riscatto.
E pare essere abbastanza per un territorio, la Sardegna, in cui mai esortazione è stata più auspicabile.
L’Alleanza dei Corpi
Mgallery – Teatro Massimo di Cagliari
a cura di Micaela Deiana / in collaborazione con Sardegna Teatro ed EXMA
con il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission
21.10 – 31.12.2017