A Sophie Calle è sempre piaciuto costruire storie e seguire flebili tracce da cui poter iniziare racconti, servirsi della vita degli altri o degli oggetti di uso comune per intessere dialoghi. Girovaga e incantata dal mondo, tanto da voler sperimentare molte delle possibilità che questo offre, si avvicina gradualmente alle sfaccettature delle esperienze che la portano prima in Libano, poi a Creta tra i pescatori, in America Centrale per sfuggire a un uomo, e ancora in Messico, passando per gli Stati Uniti, dove lavora in un circo fino a un fortuito incontro con la fotografia, che la spinge a interessarsi a questo medium. Introversa e riservata, attraverso il progetto Paris Shadows (1978-79) decide di osservare la gente comune e di scoprire lo svolgersi di possibili storie e lasciarsi portare dagli incontri casuali per decidere quali potranno aprirle nuovi orizzonti.
Con Suite vénitienne (1980) sbircia i passi che un passante costruisce entro un itinerario non concordato, ma segretamente condiviso. In questo modo Sophie Calle si culla nell’illusione di poter perdere il controllo di sé e di ciò che la circonda, ma “arma” le sue immagini di note ed indicazioni, in modo da poter ritrovare la strada nel momento estremo in cui si vedono scardinate tutte le sicurezze. Appare a volte un istinto di ricerca dell’attimo per sé solo, come se l’autrice desiderasse ignorare la presenza del futuro e delle azioni a venire, per racchiudere in uno scatto tutta la significanza dei gesti e degli atteggiamenti dei suoi soggetti. L’essere senza futuro emerge come tratto distintivo caratteristico della sua opera: legare il presente al passato, con i fili invisibili della memoria, sembra essere il messaggio che l’autrice vuole trasmettere. Questa ossessione giocosa è frutto, tuttavia, della paura di essere dimenticata e del desiderio struggente di fornire una prova tangibile della propria esistenza. Per questo motivo l’artista stessa chiede alla madre, nell’aprile 1981, di ingaggiare un detective privato che la segua in tutti i suoi movimenti, per poi riportare gli spostamenti con prova fotografica (The Shadow).
La potente macchina della memoria si mette quindi in moto, coadiuvata dal punto di vista dell’obiettivo fotografico, che coordina i movimenti, dando loro un ordine spazio temporale e archiviandoli come momenti al contempo vissuti e ricostruiti. Sophie Calle gioca tra il vedere e l’essere visti. Osserva gli altri e segue gli spostamenti. Cerca, forse inconsciamente, di ricomporre il puzzle di se stessa attraverso questo inseguimento. Come in un gioco di scatole cinesi, l’obiettivo viene puntato sia su di sé (osservatrice e osservata) sia sugli altri. Il fatto stesso di guardare implica una partecipazione fisica, un entrare nel contesto estraneo di un’altra appartenenza.
L’artista, nell’esperimento dal titolo The Sleepers (1979), non solo si protende nell’osservazione, ma si spinge nell’intimità del sonno. Sbircia l’aspetto esteriore del mondo onirico attraverso il pertugio della macchina fotografica. Crea un patto con i suoi ospiti, chiede loro di dormire alcune ore nel suo letto per poterli osservare e fotografare. In un altro esperimento intitolato Journey to California, Sophie Calle decide di spedire il suo letto, munito di coperte e cuscini, in California, a un uomo che vuole provare l’esperienza di esser parte integrante di un’opera.
Da settembre 1999 a febbraio 2000 l’uomo dorme nel letto dell’artista, mandando evidenza della performance tramite fotografie ed e-mail. Trasferire un oggetto personale e permettere che un altro ne faccia uso diventa quindi una condivisione di situazioni, in quanto l’oggetto stesso diventa sostanza esperienziale, che assume valore e significato differente a seconda del luogo in cui si trova e delle persone con cui viene a contatto. Nei suoi lavori basati su oggetti assenti, le descrizioni divengono il nocciolo delle opere stesse, rifacendosi alla memoria o immaginate da persone cieche. La forma narrata del colore diventa fortemente emotivo per chi ascolta, nel momento in cui viene fornita una descrizione per approssimazione e ci si rende conto della difficoltà di descrivere qualcosa che sembrerebbe appartenere alla sfera dell’estrema evidenza.
Nell’opera intitolata The Blind (1986), Calle chiede ad alcuni non vedenti dalla nascita di definire la loro concezione di bellezza. Le risposte che ha ricevuto sono tutte fortemente legate a un’esperienza tattile o uditiva, sensoriale quasi sempre (il mare, una scultura femminile di Rodin, i pesci nell’acquario, i capelli, l’erba), raramente a un’immagine mentale (la notte stellata descritta in un romanzo, Romance in Granada di Claude Jaunière). Un uomo ha invece risposto: “Bellezza, io ho sepolto la bellezza. Io non ho bisogno di bellezza. Non ho bisogno di nessuna immagine nel mio cervello. Da quando non posso apprezzare la bellezza, io non ho fatto altro che sfuggirle”. In questo approccio con la descrizione degli altri, l’artista crea un noi e un loro, non però per separare i due mondi, ma per sottolineare come ancora punti di vista allargati contribuiscano a creare un orizzonte più espanso.
Nel 1994, con la collaborazione dello scrittore Paul Auster, l’artista decide di migliorare alcuni aspetti della vita degli abitanti di New York. Auster le consiglia quindi di scegliere un luogo al centro della città e di abbellirlo, rendendolo più confortevole e attraente. Sophie Calle sceglie una cabina telefonica situata tra Greenwich e Harrison. Mette al servizio dell’utenza una sedia, una discreta scorta di cibo e bevande, alcune riviste, e decora le pareti con fotografie e fiori. Gotham Handbook (1994) è quanto mai stupefacente e, dopo i primi attimi di dubbio e ritrosia, gli avventori sembrano gradire molto l’intervento e lasciano testimonianze positive e di ringraziamento per l’artista.
In questo modo l’opera d’arte non diventa più fine a se stessa, ma si cala nel reale, andando a definire anche la sfera dell’utile e del confortevole. L’artista stessa trova una via di comunicazione per mettersi in contatto con la città in cui vive, per fare in modo che anche la gente della strada sia consapevole della sua opera, resa in questo modo più vicina alla quotidianità. Anche in questo lavoro Sophie Calle utilizza materiali poveri e presi dalla consuetudine della società di massa. Li offre al passante in modo consapevole e cosciente, per creare un angolo di riflessione all’interno della comunicazione umana.
La memoria diventa il pretesto per condurre un altro esperimento (Last Seen, 1990)all’interno dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Dato che dalla collezione esposta erano stati rubati alcuni oggetti e opere – disegni di Degas, Rembrandt, Manet, Flick e Vermeer, un vaso, un’aquila napoleonica – l’artista chiese ai curatori, agli assistenti di sala e ad altri membri dello staff, di descrivere ciò che ricordavano degli oggetti scomparsi. La loro memoria divenne quindi l’unico punto di appoggio attraverso il quale poter ammirare l’opera mancante: di fronte agli spazi lasciati vuoti l’autrice mise proprio le descrizioni delle opere scomparse. I visitatori, allora, non avevano altra scelta che l’affidarsi completamente alla memoria altrui per poter rievocare la bellezza dell’oggetto.
Questo totale abbandonarsi all’altro diventava anche un atto di fiducia nel genere umano e nelle sue capacità.
L’opera dell’artista va intesa nella sua globalità come una sorta di ipertesto, all’interno del quale ogni punto caldo ne rimanda a un altro in un infinito richiamo di possibilità, nella vasta esperienza umana. Il fruitore può spaziare liberamente e trovare molteplici punti di contatto tra un’opera e un’altra, perché immagini e testo guidano l’occhio in continui rimandi esperienziali.
Lo scheletro fondamentale su cui si è fatto corpo l’opera di Sophie Calle è l’ossessione monomaniacale sposata all’idea del gioco provocatorio: è l’entropia tesa fra l’attesa e la speranza di ritrovare un’identità che è scomparsa. È una serie di inseguimenti e di appostamenti per documentare l’esistenza di esseri mortali, che potrebbero sparire da un momento all’altro. L’opera è un diario del tempo che trascorre, è una raccolta di frammenti di vita, fotografie personali, tracce di viaggio, ritagli di articoli giornalistici, che vogliono testimoniare la transumanza del senso indagatore. È un flusso che trapassa dall’esperienza personale dell’individuo all’esperienza universale di tutte le persone. Le farfalle delle idee si posano sulla schiena degli esseri umani. E questo avviene mentre da qualche altra parte del mondo un ragazzo scheletrico vomita il suo ultimo pasto e poi muore sulla terra infruttuosa; avviene mentre il sangue macchia le lenzuola e il cuscino di qualche sognatore notturno; accade mentre un gatto giace esanime sull’asfalto di una strada trafficata da auto in corsa, mentre una donna sogna di vivere il matrimonio tanto anelato (sono immagini presenti nei Diari, 1978-92): tutto accade mentre il vetro viene infranto da una sassata, lasciando scoperto lo spirito o la parola significante che lo definisce.
Ognuno dovrebbe assoldare se stesso per ritrovare l’essere scomparso che ha lasciato un vuoto nella vita vuota di qualcun altro. Sophie Calle ha fotografato quella sedia vuota dove un tempo noi eravamo seduti per guardare l’esistenza, che ci è scomparsa davanti agli occhi mentre eravamo in attesa di capire il senso della nostra vita. Ha lasciato istantanee dei momenti secondari del ricordo. Ha impresso nella carta fotografica della nostra dimenticanza e della nostra distrazione le tracce, gli oggetti, gli odori, i rifiuti dei momenti scordati nei viaggi e nelle esperienze della vita.