C’è una storia e una pre-cronistoria. Com’è stato per l’Arte Povera e i quattro anni che, dal ‘66 al ‘69, ne hanno anticipato l’essenza, la forza, la poetica. D’altronde nessun cambiamento storico, meno che mai estetico, avviene repentino: è un dato di fatto; ma è certamente inalienabile la potenza con cui la ricerca sperimentale internazionale di quegli anni imposta la propria scissione con i grandi maestri.
Quando nel 1976 viene pubblicata la prima edizione (e ultima fino a un paio di anni fa[1]) della Precronistoria di Germano Celant, l’Arte povera era già affermata, riconosciuta e sicuramente collezionata; ma forse aveva già perso la genuinità dirompente con cui i poveristi la interpretavano ancor prima che il termine fosse coniato dallo stesso critico ligure.
Già dai primi anni Sessanta infatti, anticipando il famoso appuntamento amalfitano Arte povera + Azioni povere nell’ottobre del 1968, opere e artisti ne mettevano-in-forma le caratteristiche suggerendo la nascita di un sentimento inedito.
Ecco perché la prima grande retrospettiva di Jannis Kounellis, a pochi anni dalla sua scomparsa, non poteva non essere curata da Germano Celant come metonimia di un artista per il suo tempo, né poteva evitare di inquadrarne la ricerca e giustificare il suo genio come prodotto di un gruppo artistico che non si presentava così coeso dalle avanguardie. Cioè pur non condividendo analoghe premesse stilistiche, i poveristi studiavano la logica del materiale declinandola in base alle ricerche di ognuno, sia che si trattasse di piombo, terra, fuoco, lana, suono, corpo, eccetera.
Camminare nelle aule settecentesce di Ca’ Corner della Regina, letteralmente attraverso l’intera produzione di Kounellis, equivale a riconoscere una proporzionalità concettuale tra l’uso della materia e l’evoluzione di una poetica sempre tangente a una ricerca ben consapevole. Dopo un linguaggio grafico fatto di lettere e testi su tela, l’uso dell’organico sfida la prima produzione e informa uno sguardo maturo sulla supremazia della natura, sempre all’altezza di invadere gli spazi della cultura.
Come furono i dodici cavalli nella galleria L’Attico, mitologico happening di Kounellis, tutti i Senza Titolo radunati in laguna ricordano l’urgenza artistica di tornare a un grado zero della visualità, suggeriscono un paradossale “recupero dell’obsolescenza” e affidano la descrizione del proprio valore concettuale al loro posizionamento nello spazio e al montaggio dei propri materiali.
A dimostrazione che Kounellis non ragiona seguendo un’unica direzione, anche il piombo, la lana, il ferro, il gesso, la yuta coesistono accanto ad altre pratiche di pensiero, che si fanno sensibili e immateriali o diventano metafora della processualità: i tardi anni Sessanta indagano infatti la dimensione olfattiva del materiale per cui caffè e grappe diventano protagonisti di installazioni immersive; gli anni Settanta propongo il suono della combustione attraverso strumenti musicali collegati a bombole a gas e campane in ferro battuto; gli Ottanta contemplano il tempo e lo spazio ripristinando il valore sacrale della musica di Mozart e Bach e facendone performare le partiture da flaustisti e violoncellisti, qui posizionati lungo tutto il percorso espositivo.
Jannis Kounellis, l’artista, corre al di là del poverismo, aggiorna il suo sguardo davvero contemporaneo e lo contamina senza dimenticare la potenza materiale dell’opera d’arte. Jannis Kounellis, la mostra, è invece un omaggio doveroso e ben costruito a un saper fare di cui non si dimentichi l’eredità; è infatti l’occasione di Celant per scrivere una post-cronistoria di quel movimento senza cui, forse, oggi non esisterebbe una cifra stilistica (puramente) italiana.
Jannis Kounellis
a cura di Germano Celant
Fino al 24 novembre 2019
Fondazione Prada – Ca’Corner della Regina, Venezia
[1] Germano Celant, Precronistoria 1966-69, Quodlibet 2017. È la prima ristampa dopo la prima edizione del 1976 ad opera di Centro di Firenze ed.