La Collezione Maramotti dedica, in occasione del Festival di Fotografia di Reggio Emilia 2023, una mostra retrospettiva al fotogiornalista irlandese Ivor Prickett.
Nella prima sala della mostra è esposta Returning Home, una serie realizzata tra Croazia e Serbia nel biennio tra 2006 e 2008. Si tratta di stampe in formato quadrato realizzate con pellicola analogica. Particolarmente evidente è il consapevole uso di una luce caravaggesca e teatrale. Prickett racconta di aver realizzato questo lavoro relativo alla minoranza serba in Croazia dopo aver speso settimane insieme ai soggetti ritratti “cercando il coraggio di essere fotografo”. La ricerca di una relazione con i soggetti ritratti, la sua attenzione verso piccoli gruppi familiari quali nuclei di resistenza, è tradotta con una luce barocca, scenografica, pietistica, una costante che Prickett manterrà nel suo lavoro anche nel 2010, mentre lavorerà ai ritratti della popolazione mingreliana georgiana in Abkhazia.
Ivor Prickett racconta di essere stato di casa a Beirut quando è scoppiata la Primavera Araba nel 2011. Egli documenta la crisi umanitaria dalla guerra in Siria, i rifugiati in Medio Oriente e le migrazioni verso l’Europa in una serie datata tra il 2013 e il 2015. Muove il suo obiettivo da una dimensione privata verso l’esterno, entrando anche in campi rifugiati, con il supporto di UNHCR. Il fotografo racconta che in questo periodo cambia il suo rapporto con l’immagine: egli ricerca una fotografia più globale e un riconoscimento come autore.
Questo passaggio coincide con la transizione del suo lavoro al digitale, poiché scattare in analogico ha un costo maggior e, come egli afferma nostalgicamente: “mi manca non sapere che cosa ho fotografato, mi mancano quei momenti di attesa a cui ti obbliga scattare in pellicola… ma dal 2010 in poi i magazine non sono più disposti a pagare la differenza di costo tra scattare in analogico e in digitale”.
Insomma la risoluzione delle immagini di Prickett aumenta, così come la sua produzione, egli viaggia molto di più, più rapidamente, si distanzia dalla luce barocca – un ricordo della fotografia classica – e trasla l’artificiosità della luce nella costruzione delle scene, nella ricerca delle immagini di maggior impatto, in cui la sorpresa è nell’umanità e nel pathos.
Tra il 2016 e il 2018 Prickett documenta l’ascesa dello Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria. Un altro disastro umanitario è l’occasione per produrre un’altra serie fotografica, lavorando in prima linea al seguito dei contingenti militari iracheni per il New York Times. La luce barocca non torna, ma lo studio per lo studio dell’immagine mantiene una forte impronta scenografica. Prickett realizza scatti che sono molto costruiti, dei veri e propri colpi di teatro, il cui linguaggio visivo non è solo documentazione ma anche interpretazione, ed è strettamente dipendente dalle brutalità belliche.
La mostra alla Collezione Maramotti si chiude con alcune immagini realizzate durante il recente conflitto ucraino-russo. Ed è proprio in questa sala che assisto ad una scena che caratterizza il nostro tempo e mette in scena la complessità etica non solo del realizzare ma anche dell’allestire e fruire una mostra di fotogiornalismo. Ebbene tra ə giornalistə che stanno visitando la mostra insieme a me, una di loro chiede di essere fotografata con uno smartphone davanti a una stampa di Prickett in cui è ritratto un edificio sventrato dalla guerra in Ucraina. Davanti a questo paesaggio distrutto, che rieccheggia il vuoto e la desolazione che ormai lo abitano, la giornalista è indecisa se tenere la borsa a sinistra oppure a destra della sua figura, per questa selfie in cui è aiutata da una collega.
Quando la Russia dichiarò guerra in Ucraina, le informazioni di attualità reportistica venivano caricate in rete andando ad abitare una densissima nuvola di informazioni insieme a post di modelle, manifestazioni, attacchi militari, meme, viaggi esotici di cittadini russi, pubblicità di cibo spazzatura.
Il selfie performativo a cui ho assistito si aggiunge a quel fortissimo rumore di fondo che distanzia dall’attualità e che ci avvicina un po’ di più ad un imbarazzo provato sia per la pornografia reportistica – mostrare conflitti a distanza temporale ci aiuta a distinguere con maggior chiarezza l’ideologia del pathos aggiungo da Prickett alle immagini – sia per la mancata professionalità giornalistica. In entrambi i casi è privilegiato un criterio estetico personale piuttosto che un criterio informativo. Ma soprattutto davanti alle ferite belliche architettoniche assistiamo a una ferita etica della fruizione. Davanti alle immagini di Prickett siamo testimoni di un approccio fotografico in cui è considerato etico esserci per informare l’occidente di una serie di crisi umanitarie.
Ma quali escamotage di traduzione adotta il fotogiornalismo per mantenere vivo l’interesse e il sostegno del pubblico, per esempio verso la popolazione ucraina? Quali sovrastrutture porta con sé la riproduzione di conflitti bellici medio-orientali, attraverso gli sguardi di reporter occidentali?