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Irma Blank. Gehen | P420, Bologna

“Gehen”, il verbo tedesco che sta per “andare”/“percorrere”, è stato adottato da Irma Blank (Celle, 1934 – Milano, 2023) per descrivere in una parola il percorso accidentato che ha connotato l’ultima fase della sua attività artistica, nella direzione di una rinascita materializzatasi in frastagliate sismografie interiori. Ma Gehen è anche il titolo dell’omaggio dedicato dalla […]

Irma Blank, Gehen, 2023, installation view, P420, Bologna | Courtesy P420, Bologna | Foto Carlo Favero

“Gehen”, il verbo tedesco che sta per “andare”/“percorrere”, è stato adottato da Irma Blank (Celle, 1934 – Milano, 2023) per descrivere in una parola il percorso accidentato che ha connotato l’ultima fase della sua attività artistica, nella direzione di una rinascita materializzatasi in frastagliate sismografie interiori. Ma Gehen è anche il titolo dell’omaggio dedicato dalla galleria P420 di Bologna all’artista tedesca, per commemorarne la recente scomparsa. La ricerca di Irma Blank, avviata sin dalla fine degli anni Sessanta prima in Sicilia e poi a Milano, è stata un continuo procedere sulla strada della modulazione accorta di gesti minimi, atti a tracciare arabeschi di linee intrise di vita. Sul supporto neutro del foglio l’artista ha orchestrato infinite partiture di significanti “grafici”, nel senso etimologico del termine che non distingue tra “scrivere” e “disegnare”. Questo perché ogni sintagma del suo discorso visivo pare la lettera di un alfabeto ancestrale, prosciugato di ogni contenuto fino al suo scheletro d’inchiostro, oppure, ambivalentemente, il grafo tracciato da uno strumento diagnostico che esplora orografie sommerse. Un processo così intimo che si è sovrapposto e fuso al suo respiro, alle oscillazioni della sua esistenza, fino ad accogliere in sé un grave problema di salute che nel 2016 ha comportato per l’artista la totale perdita di mobilità nel lato destro del suo corpo. Un trauma fisico ed emotivo che avrebbe potuto debilitarla e determinare la fine di un’attività artistica intrinsecamente legata all’esecuzione non delegabile del gesto, ma che invece ha trovato risposta nella scelta coraggiosa di intraprendere una seconda vita artistica, imparando da zero ad utilizzare i suoi strumenti con la mano sinistra.

La grammatica gestuale, andata articolandosi per decenni in una sintassi segnica improntata su ritmi visivi, bilanciamenti compositivi, vibrazioni cromatiche, si ritrova regredita allo stadio fetale, alla mono-dimensione del punto, che implica l’infinito potenziale; di nuovo il segno grafico deve imparare a trascinarsi sul foglio, costruendo poco a poco un nuovo linguaggio. Il processo del fare, nel suo svolgimento temporale, più che mai è posto al centro dell’atto artistico e si riverbera nella vita. “Io penso che siamo dentro il nostro fare attraverso il nostro corpo, nel tempo – dichiarava l’artista nel 2018 – il tempo ci accompagna, ma anche noi facciamo lo stesso con lui e, mentre procediamo, ogni accadimento, compresi gli errori, si equilibra, fino a che la vita coincide con un percorso di segni, una via che va dall’inizio alla fine.” Le opere esposte, nella loro natura di esercizi “calligrafici” ripetuti, danno conto di un processo di apprendimento, che comporta anche una riscoperta del sé sotto altre luci. Si tratta di rimembranze dell’antica pratica della scrittura: un susseguirsi ordinato di segni sulla pagina bianca che segue un andamento a linee cadenzate sovrapposte, dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra – almeno è questo ciò a cui i lavori sembrano alludere, ma forse l’osservatore è troppo vincolato ad una certa abitudine visiva per comprendere il segno in sé, scarnificato da ogni sovrastruttura di senso. Dopotutto, in ogni istante dell’atto dello scrivere-disegnare esiste solo e nient’altro che il contatto puntiforme della penna sul supporto; ogni logica di lettura e di interpretazione dei tracciati nel loro insieme avviene a livelli di scala maggiori, in cui il coinvolgimento empatico è inversamente proporzionale al grado di interpretazione.

Irma Blank, Gehen, Second life n.5, aprile 2018, 2018, pennarello su carta trasparente, doppia pagina, cm. 29,6 x 42 (x5) (cm. 29,6 x 210 totale) | Courtesy Irma Blank Estate, Milano e P420, Bologna | Foto Carlo Favero
Irma Blank, Gehen, 2023, installation view, P420, Bologna | Courtesy P420, Bologna | Foto Carlo Favero

La prima opera, Gehen, Second life 5 novembre 2017 (2017), si compone di sedici pagine doppie, solcate da linee orizzontali tracciate con una biro, che proprio in nome del filtro culturale che inevitabilmente interpreta e sedimenta nel vissuto quanto esperito con i sensi possono sembrare tanti libri aperti l’uno accanto all’altro, oppure le pagine di un unico diario intimo che scorrono nei fotogrammi di un film. Quelle righe dispiegate orizzontalmente rendono tangibile e fisicamente presente nello spazio il tempo impiegato nel paziente atto iterativo; ma ogni oscillazione del tracciato, provocata da sussulti, dubbi o affaticamenti, è un’impronta indicale della vita in sé. Come scrive Riccardo Venturi, “qualcosa passa in queste linee, allo stesso modo in cui l’elettricità passa in un filo. Al livello più elementare, a passare è il tempo: il tempo fisico – o, come si suol dire con un aggettivo straordinario, materiale – per tracciarle, e poco importa, a questo punto, dove comincia la linea e in quale direzione si diriga. […] Ma la scrittura grafica di Blank non è un mero strumento di registrazione, perché qualcosa s’insinua, che sia un’esitazione o un tremolio. Le sue righe non si toccano, non trasgrediscono lo spazio bianco in cui esistono: si sfiorano, cercano il contatto mettendosi in tensione”. Nuove danze di linee abitano le opere successive, anch’esse intitolate in modo anodino con l’unico riferimento alla data precisa di realizzazione (di nuovo il flusso del tempo è incamerato nei tracciati). Grazie al passaggio dalla biro al pennarello, i moti ondivaghi si accendono di colore.

Se vediamo Gehen, Second life WAYS I, gennaio 2020 (2020) come un ulteriore stadio evolutivo di un organismo-linguaggio colto nel suo processo di autodefinizione, pare di poter dire che l’esile impalcatura bidimensionale che – seppur stentatamente – resisteva in precedenza adesso collassa, e le linee franano rovinosamente l’una sull’altra. Ma segni tanto semplici e puri non possono non comportare un proliferare di visioni. Negli occhi di Venturi quel fascio reiterato di linee che, in ogni riquadro, tende a divaricarsi nel suo procedere da sinistra a destra, è investito da un’immagine visiva che ha la potenza di un’allucinazione: “adesso quel blu mi ricorda il mare, e al posto delle linee vedo delle onde; difficile, giunto a questo punto, tornare indietro, ancor più oggi che Irma Blank non c’è più. Vedo l’ondulazione e sento il rumore della risacca, un riverbero lontano dall’articolazione sonora di parole lette a mente, diverso dal rumore discreto di una penna che corre sul foglio. Vedo onde ininterrotte come un respiro che non conosce l’apnea – ogni linea corrisponde a un gesto che corrisponde a un respiro che corrisponde a un’onda”. Ventisette riquadri-onde-respiri articolano un orizzonte, una crepitante fascia di blu che fende il bianco della carta e del muro tutt’intorno. Sulla quarta parete della sala, di nuovo un collasso (Gehen, Second life H19, agosto 2018, 2018): tutto il mare si raccoglie in un unico riquadro, lo sguardo affonda nei riflessi luminosi – gli spazi bianchi – sull’acqua increspata – le linee ondulate di colore blu; lì, tra una linea e l’altra (in una linea e nell’altra) è insita ancora e lo sarà per sempre l’essenza più profonda di Irma Blank.

Irma Blank, Gehen, Second life WAYS I, gennaio 2020, 2020, pennarello su carta trasparente, serie di 27 pagine, cm. 35 x 25 cad. (cm. 35 x 888 totale), particolare | Courtesy Irma Blank Estate, Milano e P420, Bologna | Foto Carlo Favero
Irma Blank, Gehen, Second life H19, agosto 2018, 2018, pennarello su carta trasparente, cm. 50 x 35 | Courtesy Irma Blank Estate, Milano e P420, Bologna | Foto Carlo Favero