A pochi giorni dalla conclusione di IPERNATURAL, a cura di Barbara Boninsegna direttrice artistica di Centrale Fies e Filippo Andreatta, continuano e si concludono le riflessioni sulle performance viste alla XXXIX edizione di Drodesera, il festival delle arti performative che si è svolto negli spazi di Centrale Fies, Dro, Trento (21.06 – 27.07.19).
Seguo le serate del 25 e del 27 luglio dove ho occasione di assistere a performance molto diverse tra loro ma che, azzardo, corrono fondamentalmente lungo tre binari a volte sovrapposti: lo studio sulla rarefazione, la diluizione e l’astrazione del movimento nella concretezza del gesto coreografico (Michele Rizzo e Gisèle Vienne), la radice sentimentale ed emozionale dell’azione scenica (Marco D’Agostin, Michikazu Matsune ma anche Vienne) e il sapore vagamente non-sense, clownesco e ludico della composizione nella performance (CollettivO CineticO e Michikazu Matsune). Sta allo spettatore condividere, contestare o arricchire questo punto di vista – che è uno dei molti possibili.
Turbina 2, 25 luglio: Michele Rizzo, coreografo e danzatore italiano che il pubblico ha incontrato l’anno scorso a Fies per Live Works vol. 6, è in scena quest’anno con l’opera che chiude la trilogia iniziata nel 2015 con Higher e proseguita nel 2017 con Spacewalk, per arrivare a DEPOSITION (2019). Leggo che il termine «deposizione» è preso in prestito dalla fisica e si riferisce al processo di trasformazione di materia volatile in materia solida. Questo processo fisico è sviluppato dal coreografo in maniera allusiva, non immediatamente percepibile ma attraverso gesti, posizioni, micro-movimenti che accompagnano lo sguardo dello spettatore, tenendolo incollato alla scena
Lo spettacolo è ipnotico e minimale e riesce a portare la contemplazione – almeno la mia – da uno stadio immateriale a uno fisico e carnale. I gesti di Rizzo mi fanno pensare a un essere che cerca la propria solidità nello spazio muovendosi nell’atmosfera, in una sorta di viaggio spirituale – a suo modo – e che studia dettagliatamente il movimento, quasi impercettibile. Spostamento e gesto del performer, poi, sono indirizzati alle luci che mutano sulla scena (gli occhi incantati di Rizzo sono spesso puntati a quello che le luci mostrano), ora illuminando una parte della catena appesa obliquamente nello spazio – a inizio performance agganciata in scena da Rizzo stesso -, ora illuminandone un’altra per poi arrivare al centro dove, al termine del lavoro, ritroviamo il corpo del danzatore. Concentrazione, attenzione, astrazione, smarrimento, peso e gravità sono alcuni dei concetti che a mio avviso ruotano attorno a questa danza, dall’origine interiore profonda e che poi esce verso il pubblico, nello spazio scenico condiviso.
Turbina 1, 25 luglio: la tenerezza di FIRST LOVE di Marco D’Agostin (PREMIO UBU come Miglior Attore/Performer Under 35) comincia con una deliziosa letterina d’amore che viene consegnata al pubblico, prima che inizi lo spettacolo. Al suo interno: un adesivo con la scritta “First Love”, una fotografia di Marco e Stefania Belmondo con didascalia, una spilletta e una cartolina con le parole delle canzone First Love di Adele, poi cantata in playback da D’Agostin a inizio performance. Sulla scena non c’è altro che il danzatore e la sua voce, bravissimo nel tenere assieme suono e movimento in questo canto d’amore: l’amore di Marco, raccontato nella forma mescolata del ricordo personale (la sua passione giovanile per lo sci di fondo e l’adorazione per il mito di Stefania) e della telecronaca – a tratti spassosa – «della più celebre gara della campionessa piemontese, la 15km a tecnica libera delle Olimpiadi di Salt Lake City 2002».
La scrittura coreografica di D’Agostin è limpida e precisissima, richiama alla gestualità del mondo dello sci, certo, ma non è mai una lettura didascalica dei gesti e dei movimenti di questa disciplina: è forse una replica dolce, una risposta un po’ nostalgica ma non melensa che l’autore dà a se stesso e al bambino che era, rispetto a quel primo-amore-che-non-si-scorda-mai.
Sala Mezzelune, 25 luglio: assisto a PERICOLARE primi esercizi di pornografia vegetale (studio) di CollettivO CineticO. Si tratta di uno studio per un lavoro in progress costruito sullo schema dei tableaux vivants in movimento: 11 brevi quadri viventi su musiche di Franz Schubert in cui i performer e ideatori del progetto – Simone Arganini, Carmine Parise, Angelo Pedroni e Francesca Pennini – abbozzano una serie di «mini-balletti» o mini-azioni, insomma degli esercizi come dice il titolo, sul possibile rapporto pornografico tra umano e vegetale. Alcuni quadri sono davvero ingegnosi e di sicura efficacia estetica: penso all’incipit di tutto, con il risveglio dei corpi nudi dei performer che sembrano per la prima volta venuti al mondo (in un nuovo mondo) e si trovano circondati da piante; alla mini-erezione di un performer a volto coperto disposto al centro della scena e sdraiato con gli altri a raggiera; o il posizionamento dei devices tecnologici in mezzo ai vegetali (dentro di essi) mentre i performer si avvicinano, alludendo in modo sensuale ma ironico al balletto amoroso. La performance termina con una gara di resistenza molto divertente tra danzatori, il quadro finisce quando il gong viene suonato da qualcuno del pubblico che si alza ed entra in scena: è il quadro numero 11 intitolato appunto The fight. Sarà interessante seguire gli sviluppi di questa nuova ricerca di CollettivO CineticO.
Turbina 1, 27 luglio: con AUGUSTO di Sciarroni, CROWD di Gisèle Vienne è lo spettacolo che vedrei e rivedrei. La coreografa usa queste parole per descrivere il lavoro: «è una comunità di giovani che si è ritrovata per il desiderio di provare sensazioni di euforia e per l’interesse comune riguardo a un genere musicale, la techno. Il contesto scelto è quello di una festa». Il pubblico in sala sembra effettivamente e totalmente immerso nel rito rappresentato, assistendo al formarsi di una comunità che nasce, si anima e si disgrega nell’arco di una serata o di una nottata danzante. Le pulsazioni della musica – con i suoi cambiamenti di volume e di battito – seguono le personalità dei performer amplificandone gli stati emotivi. Ogni comportamento sulla scena rimanda a gestualità possibili o, addirittura, iper-realistiche: azioni esasperate dal ralenti, bloccate nell’immobilità, scattanti e dissociate nell’euforia o nella rabbia festosa, giocate sull’assolo o sul pas de deux/troi/quatre, o ancora sulla coreografia collettiva. Questi gesti e questi movimenti sono però anche modulati e strutturati in maniera evocativa, catturando l’essenza del contesto sociale e le sue innumerevoli tonalità emotive.
Sono molte le situazioni sceniche di CROWD che ricordo con grande intensità: dal momento in cui ogni danzatore gira in tondo su di sé rapito nel proprio solipsistico movimento, a quello in cui ogni performer si spegne pian piano e si mette a terra mentre una sola resta tra tutti, col compito di risvegliare gli altri e portarli lentamente fuori dalla festa.
Sala Comando, 27 luglio: il festival per me termina con un addio, anzi molti e diversi tra loro. Sono addii anonimi o famosi, drammatici o leggeri, veri o presunti, malinconici o arrabbiati, comunque sempre molto umani, quelli raccontati dall’artista giapponese Michikazu Matsune in GOODBYE. Chi tra noi non ha mai detto addio a qualcuno o a qualcosa? Questa è la domanda attorno a cui ruota il discorso della performance: un’opera che gioca sull’equilibrio tra coinvolgimento emotivo e distacco umoristico, un serissimo e buffissimo gioco che, come per CollettivO CineticO, fa dell’ironia e del non-sense uno dei suoi punti di forza. Siamo in Sala Comando e sulla scena sono disposti pochi oggetti: un grande martello, alcune sveglie, un tavolo, una sedia, un bicchiere d’acqua e delle lettere. La narrazione si sviluppa attraverso la lettura e il commento di queste lettere d’addio (parte di esse sono poi consegnate al pubblico alla fine) e performata da Matsune con grande delicatezza, ma intervallata anche da alcuni momenti forti e – forse -– simbolici, come la danza che il performer compie per distruggere con il martello le sveglie, quasi volesse cancellare il tempo e il dolore del dirsi addio.