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Rivelare e riattivare per definire lo stato sospeso della fotografia contemporanea. Una breve frase per introdurre in modo più ampio il progetto espositivo di Stefano Graziani per Osservatorio Fondazione Prada. La fotografia si annuncia qui nel suo carattere duplice: da un lato chiaro atto di conoscenza a scopo documentativo, dall’altro preintellettuale luogo d’incontro tra soggetti, in questo caso materiali d’archivio, diversi ma affini.
Questioning Pictures, a cura di Francesco Zanot, introduce la messa in discussione del mezzo fotografico che, operata dal fotografo di formazione architetto, propone una ricerca sperimentale attraverso collezioni di spazi istituzionali quali il Canadian Centre for Architecture (CCA), il Kunstmuseum Basel, il Museo di Castelvecchio a Verona, il Museo Insel Hombroich di Neuss e la gipsoteca del Museo Canova a Possagno.
Nomi come Carlo Scarpa, Aldo Rossi, Gordon Matta-Clark, Adolf Loos e Giorgio Sommer appaiono nella successione fotografica bidimensionale descrivendo forme solide e plastiche, effimere o già in partenza in due dimensioni. L’esperienza di fatto si allarga poi nel dispositivo del display che scandisce i due piani dell’Osservatorio senza pianificare un percorso definitivo. Realizzato dallo studio belga OFFICE KGDVS (Kersten Geers David Van Severen), il sistema di paraventi incernierati e colorati, in pendant o meno con il colore della moquette a terra, oltre a riecheggiare la casa-museo di John Soane a Londra, rende arbitrari i confini delle cornici. Gli accostamenti visivi, nell’attraversamento dello spazio quasi labirintico, non sono originati dal fenomeno dell’adiacenza, bensì da un ritmo frutto di legami semiotici di coincidenze eidetiche e insieme dal ripetersi di immagini apparentemente uguali ma diverse. Quando Diane Arbus descriveva la fotografia come un segreto su un segreto, come qualcosa che “quanto più ti dice, tanto meno tu sai”, probabilmente faceva riferimento ad una sorta di impossibilità di onniscienza davanti all’immagine. L’esplorazione e l’indagine divengono allora necessarie per un esercizio della visione che disinneschi la lettura cronologica o tematica per mettere in moto una costellazione di immagini.
Lisa Andreoni: Mettendo in discussione una visione che fa della fotografia principalmente un mezzo per documentare, da dove nasce l’esigenza di sovvertire in questa mostra il modello archivio?
Stefano Graziani: Le fotografie che fanno parte di questo lavoro penso siano fortemente radicate nella fotografia documentaria, ci mostrano degli oggetti e dei luoghi che fanno parte di sistemi ordinati. Ho iniziato questo progetto cercando quello che in parte avevo già visto e in parte conoscevo. Partendo da questo, nel tempo in cui ho lavorato a questa ricerca ho potuto incontrare ciò che prima non conoscevo.
Fin dall’inizio ho pensato fosse importante lavorare sullo scarto tra ciò che la fotografia documenta e come questo appare sulla superficie bidimensionale della stampa. Penso sia un esperimento che procede attraverso figurazioni, oltre che attraverso forma e documento. In questo progetto, e per la prima volta nel mio lavoro, le fotografie sono accompagnate da un apparato di didascalie che riporta molto precisamente la descrizione di quello che vediamo fotografato. Ripensare l’ordine è un esperimento temporaneo e appare attraverso una diversa sequenza delle fotografie. Le didascalie, che in alcuni casi includono la collocazione dell’oggetto nell’archivio, ci permettono di sapere da dove gli oggetti provengono, ci offrono la possibilità di poter rivedere gli oggetti, di sapere a quale ordine originale appartengono; rappresentano la possibilità di poter rivedere e ritrovare determinate cose.
LA: Nel distanziarti dai classici codici di rappresentazione di una collezione proveniente da un museo o archivio, nel lasciar intravedere bordi o imprecisioni nell’inquadratura mostri un diverso ruolo dell’immagine ancorata in qualche modo nel mondo reale. Credi di aver creato in questa maniera un tuo archivio personale?
SG: Bordi e imprecisioni sono parte costante di tutto ciò che ci circonda, hanno a che fare con la nostra esperienza e con gli accadimenti. Succede che quando torniamo in qualche luogo che pensiamo di conoscere potremmo anche non riconoscerlo. Credo abbia a che fare con l’essere stato in un determinato luogo. La distanza di cui parli è interessante perché mi sembra tu intenda la distanza dalla possibilità di produrre veramente un documento. Credo sia lo scarto di cui parlavamo prima, è molto distante dall’oggetto che rappresenta e ne è molto vicino. In questo progetto ho provato ad esplorare proprio questo spazio di senso riflettendo sull’idea di documento. Questo è un aspetto che mi interessa, esiste anche a prescindere dai sistemi ordinati, dagli archivi, ha a che fare con la vita e l’esperienza.
LA: All’interno della mostra l’allestimento labirintico dettato dai paraventi genera plurimi percorsi. Quanto grande è la forza di questo dispositivo?
SG: L’allestimento è stato pensato assieme con Office Kersten Geers David Van Severen di Bruxelles. E’ stata una collaborazione in cui entrambi conosciamo bene il lavoro dell’altro. Penso che la possibilità di vedere le fotografie senza un’ordine prestabilito sia una delle qualità di questo progetto di allestimento. Un’altra è la possibilità di far coesistere il panorama sulla copertura delle gallerie Vittorio Emanuele che si ha dall’Osservatorio con i lavori in mostra. I colori e la moquette sono stati scelti per pensare ad un interno domestico e allo stesso tempo all’interno di un castello.
LA: Come ti immagini la mostra allestita in un altro spazio?
SG: Dipende molto da quale spazio, penso però che questo allestimento, che permette di vedere le fotografia mai tutte insieme e non in un preciso ordine sia parte strutturale del processo che ha portato all’ideazione di questa mostra. Penso comunque che in un’altro spazio potrebbero servire ancora dei paraventi.
LA: Può la totale libertà di attraversamento dello spazio e la libera configurazione di collegamenti tra le fotografie essere paragonata in qualche modo al motore del montaggio cinematografico?
SG: Ci sono dei momenti cinematografici, sono tre fotografie, tre inquadrature, che si ripetono. Sono Giorgio Sommer, l’album Souvenir de Pompei, Adolf Loos, villa Mueller a Praga e le mele sul tavolo di Mies van der Rohe. Sono fotografie che mostrano momenti diversi. Stiamo fermi e le cose di fronte a noi si muovono, non c’è veramente un momento decisivo. Non so se questo sia cinematografico, non è veramente una messa in scena e non è un montaggio definitivo, come dicevamo la fruizione delle fotografie può cambiare. Le fotografie documentano degli accadimenti che non siamo sicuri di poter rivedere allo stesso modo una seconda volta.
LA: Quanto tempo hai impiegato per la realizzazione del progetto espositivo considerando che non tutte le fotografie sono state scattate al Canadian Centre for Architecture?
SG: Da quando ho iniziato il dialogo a proposito di questo progetto con la Fondazione Prada assieme a Francesco Zanot è passato all’incirca un anno. Credo che alcuni aspetti di questo processo fossero già presenti in Taxonomies che ho pubblicato nel 2016 con a+mbookstore e che siano parte dei progetti che ho fatto con la Galleria Mazzoli, Under the Volcano and Other Stories, It Seemed as though the Mist Itself had Screamed, Nature Morte, Fiction and Excerpts, molto probabilmente è un processo che ho iniziato un po’ di tempo fa, non so di preciso quanto tempo ci ho messo. Oltre al Canadian Center for Architecture di Montreal (CCA) ho potuto lavorare alla Villa Mueller di Adolf Loos a Praga, alla Stiftung Insel Hombroich, a Neuss, al Kunst Museum di Basilea, al John Soane Museum di Londra, alla Gyipsotheca di Possagno, al Museo di Castelvecchio di Verona e presso la casa Boschi di Stefano a Milano.
LA: C’è un’immagine particolare di quelle esposte che assume più rilievo?
SG: C’è, o meglio ci sono state, alcune fotografie che sono chiaramente delle nature morte; sono un tentativo per indagare i generi minori e per prendere allo stesso tempo una distanza da questi. Mentre scrivo penso che spostando l’interesse da un fotografia ad un’altra possiamo slittare nella lettura dell’intero lavoro. Quindi ti risponderei di si.