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Intervista con Andrea Mastrovito. I Am Not Legend

Mauro Zanchi: Come nasce l’idea che ha portato alla realizzazione di I Am Not Legend? Andrea Mastrovito: Nasce dalla terza legge della termodinamica:  “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. L’ azione in questione è NYsferatu – Symphony...

Andrea Mastrovito – I Am Not Legend FIRST FRAME
Andrea Mastrovito – I am not legend, 2020, film d’animazione, 1 h 12‘. Vista dell’installazione a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Palazzo Fabroni, Pistoia

Mauro Zanchi: Come nasce l’idea che ha portato alla realizzazione di I Am Not Legend?

Andrea Mastrovito: Nasce dalla terza legge della termodinamica:  “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”. L’ azione in questione è NYsferatu – Symphony of a Century, il mio primo film animato, finito nel 2017 dopo tre intensissimi anni di lavoro e 35.000 disegni. I Am Not Legend è la reazione a quel lavoro titanico, incredibilmente ricco, denso e dispendioso. Un po’ come per De Gregori Bufalo Bill fu la reazione a Rimmel, o per i Queen News of the World in risposta al dittico operistico A Night at the Opera e A Day at the Races: da un lato avevo la necessità di semplificare il messaggio, renderlo più diretto; dall’altra – pur volendo continuare a lavorare col cinema e l’animazione – non avevo nessuna voglia di rimettermi a disegnare, e anzi mi son detto: “piuttosto che ridisegnare un intero film, la prossima volta lo cancello!”.
E così è stato. Naturalmente, poi, l’idea di cancellare nasce proprio sia dalla necessità di semplificare il lavoro che di indagare a fondo l’altra faccia del disegno, appunto, la cancellazione. Per questo I Am Not Legend è sia il sequel che la perfetta controparte di NYsferatu.
L’intenzione, comunque, è quella di terminare questa ricerca “cinematografica” con un terzo capitolo, che possa partire da una terza tecnica, il collage: se la cancellazione riscopre i livelli originari del sostrato (il foglio bianco) il collage letteralmente lo penetra, lo taglia, lo seziona e lo ricompone, creando un nuovo punto di partenza, una nuova Storia.

MZ: Che significato hanno gli zombie nella tua rilettura del film di George Romero, a sua volta basato sul romanzo di fantascienza post-apocalittica di Richard Matheson?

AM: A differenza della figura del vampiro, non ho mai amato particolarmente gli zombie: sono noiosi, non fanno niente se non inseguire e mangiare. Ma non li ho cancellati (soltanto) per via di quest’antipatia: se nell’originale di Romero gli zombie rappresentano – fuori della evidente metafora della Guerra del Vietnam e della violenza razziale americana – il ritorno del rimosso e, in fondo, una incarnazione grottesca dell’homo sacer di Agamben, in I Am Not Legend gli zombie sono… una terribile dimenticanza.
Già il titolo, negativizzando l’originale I Am Legend di Matheson con quel “Not” avverte del processo che metto in atto: cancellazione e perdita della memoria. Il bellissimo testo di Leora Maltz-Leca nel libro che accompagna il mio film tratta proprio di questo: la cancellazione come metafora della dimenticanza, e per questo lo zombie diviene non “incidente” bensì essenza stessa, spregevole, del nostro tempo. D’altronde il passo dalla perdita della memoria alla perdita dell’identità è brevissimo.

MZ: Come nella musica il contenuto e la forma sono inscindibilmente uniti, anche in I Am Not Legend la metafora dell’assenza è tutt’uno con la scelta formale del gesto cancellatore. Cosa comporta, a livello simbolico e concettuale, la cancellazione e la reiterata rimozione dei corpi e dei volti umani, il senso della rimozione, dell’occultamento e dell’oblio?

AM: La cancellazione “fisica” degli zombie si accompagna a quella più sottile della sceneggiatura originale: tutti i personaggi – tranne il protagonista Ben, quantomeno per i primi trenta minuti – parlano esclusivamente attraverso citazioni da film, romanzi e libri (quasi tutti) di grande successo commerciale, come se fossero svuotati di una propria identità, o meglio come se le loro personalità, i loro pensieri, fossero affidati a forme e contenuti altrui: lo zombie, d’altronde, prima della rilettura romeriana, originariamente era proprio questo, ovvero un corpo privato di idee e personalità tramite riti oscuri e destinato ad obbedire al volere di uno o più padroni. È esattamente quello che succede sulle nostre piattaforme social, da facebook a instagram, dove la condivisione selvaggia di contenuti non letti e men che meno compresi, assieme alla citazione di frasi e immagini “belle” della cui origine non si ha la più pallida idea riducono il pensiero del singolo ad un sentire comune indefinito e banalizzato. E là dove prospera la banalità, attecchisce la dimenticanza, e con essa il male, come ci insegna Hannah Arendt nel suo inquietante La Banalità del male, incentrato sul processo ad Adolf Eichmann.
Quasi in maniera naturale, ovvia direi, I Am Not Legend e la sua sceneggiatura si appoggiano sul ricordo della più grande delle dimenticanze, ovvero sulla Memoria con la M maiuscola: quella dell’Olocausto.
Il film inizia, difatti, con la descrizione del campo di Auschwitz fatta da Primo Levi nel suo Se questo è un uomo, prosegue inserendo nella tv – da cui i protagonisti dipendono morbosamente – spezzoni dal celebre match tra nazisti ed alleati di Fuga per la Vittoria e dal discorso di Hitler del 1935 alle acciaierie Krupp, dove  sia il fuhrer che la sua progenie sono completamente cancellati – bianchi, bianchissimi, arianizzati all’ennesimo livello – come propaggini del Nulla che vanno rappresentando.
Non è un caso che i protagonisti di I Am Not Legend attribuiscano al male sconosciuto che li assedia le caratteristiche del Nulla del romanzo tedesco La Storia Infinita di Michael Ende attraverso una lunga serie di citazioni dal film ad esso ispirato: Fantàsia ed il suo annientamento sono una trasposizione letterale della Germania nazista in cui Ende visse da bambino, dove il pensiero e l’immaginazione vennero soppiantati dal nichilismo razziale.

Andrea Mastrovito – I am not legend, 2020, film d’animazione, 1 h 12‘. Vista dell’installazione a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Palazzo Fabroni, Pistoia
Andrea Mastrovito – I am not legend, 2020, film d’animazione, 1 h 12‘. Vista dell’installazione a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Palazzo Fabroni, Pistoia

MZ: Come è progredita la ricerca dai tuoi primi lavori fino a I Am Not Legend, attraverso l’uso di materiali poveri, in particolare delle immagini fotocopiate?

AM: Il primo lavoro “fotocopiato” è Millionnaire, presso Analix Forever a Ginevra, nel 2007. Fu un cambiamento epocale: avevo cominciato ad esporre continuativamente il mio lavoro nel 2002 proprio con una mostra da Analix, Italian Boys. L’anno dopo avevo intrapreso la via del collage, sviluppandolo prima bidimensionalmente e poi nello spazio: per anni ho ritagliato ed incollato inventandomi mondi sempre più intricati e colorati. Poi, anche lì, ad un’azione è seguita una reazione: pian piano ho cominciato ad asciugare i collages, rendendoli più essenziali, eliminando il colore e lavorando solo sul bianco e nero ed infine sul monocromo bianco, lasciando che fosse l’ombra tra i vari livelli di carte a dare forma a quanto rappresentato. Ero arrivato ad una sorta di bianco su bianco: il passaggio al foglio bianco era inevitabile.
Così per Millionnaire decisi di fotocopiare letteralmente tutta la galleria, creandone una versione bidimensionale e monocroma, in nero su bianco: una copia delle 3307 immagini andò appesa direttamente sui muri della galleria, mentre l’altra venne rilegata in cinque volumi, che ancora oggi, dato che la galleria ha chiuso, racchiudono la memoria di quegli spazi storici. In seguito ho fotocopiato libri, film, concerti, appartamenti etc., allo scopo di semplificarli, smontandoli e rimontandoli utilizzando il modulo-fotocopia come fosse un mattoncino lego. L’immagine fotocopiata è stata un viatico fondamentale per il passaggio al disegno, che è divenuto il mio ambito di ricerca principale in tutti gli anni Dieci.  Nysferatu difatti poggia esclusivamente sul disegno; I Am Not Legend nasce dalle immagini fotocopiate; il terzo capitolo di questa trilogia, se riuscirò mai a trovare i fondi, si baserà esclusivamente sul collage. Rileggendo questo passaggio disegno-fotocopia-collage balza all’occhio come sia l’esatto percorso a ritroso (quindi un ritorno alle origini, alla ricerca del principio primo)  “collage-fotocopia-disegno” messo in atto in questi anni di lavoro.

MZ:  È interessante approfondire la questione dell’omaggio, della reinterpretazione e della rilettura. In corso d’opera come prendi le distanze dai lavori che ti hanno ispirato e dalle fonti, per mettere in moto qualcosa che appartiene alla tua visione e al tuo stile? Ovviamente mi riferisco non solo a questioni formali ma anche alla struttura concettuale.

AM: Avviene automaticamente. Di base, da un lato penso si possa tranquillamente affermare che utilizzare una fonte (un libro, una citazione, persino l’opera di un altro artista) non sia poi così dissimile dall’utilizzare uno strumento del lavoro, sia esso una matita, un dato colore, un dato programma al pc o lo stesso pc. Tutte queste cose sono frutto dell’ingegno dell’uomo e senza il lavoro di chi è venuto prima di noi non potremmo utilizzare nulla di quanto abbiamo oggi. D’altra parte le fonti  citate in molti dei miei lavori sono necessarie a costruire la struttura concettuale delle opere stesse: soprattutto l’utilizzo delle immagini “fotocopiate” prevede già nel modus operandi un’idea di “copia” e l’idea stessa di “collage” o di “papiers collès” nasce nel Novecento con la necessità di inserire il reale all’interno dell’opera. Ecco, è proprio qui la questione: la somma di tutte le citazioni – da altre opere dell’ingegno o dalla semplice cronaca – , il loro assemblage conduce nel mio lavoro ad una stratificazione di significati che tenta di restituire, per quanto possibile, semplificata e comunque rimasticata, la complessità del Reale. Una complessità rizomatica dove tutto ha senso e dignità, dal materiale di supporto (spesso trovato e non lavorato) alla tecnica esecutiva alla citazione alta o bassa che sia. Parafrasando Deleuze e Guattari in Mille piani, ogni opera – così come ogni individuo – “è una molteplicità infinita, e tutta la Natura è una molteplicità di molteplicità”. Questa definizione ben si adatta sia a Nysferatu sia a I Am Not Legend.

MZ: Nella sala del museo di Pistoia è interessante anche la scelta di proiettare la narrazione di I Am Not Legend su uno schermo costituito da una parete di libri, proprio in relazione con Scultura d’ombra (2007), ovvero alle librerie-biblioteche di Claudio Parmiggiani collocate nello stesso spazio, dove i libri negli scaffali sono “delocazioni”, impronte e proiezioni di fuliggine, al contempo assenze e presenze. Come dialoga il tuo film con queste altre presenze?

AM: Quando un nuovo assistente – spesso un ragazzo o una ragazza dell’Accademia – arriva in studio per collaborare ad un progetto, gli spiego sin da subito che dovrà lavorare a caso. Naturalmente non tutti lo capiscono al volo, ma si tratta sempre di un “caso” guidato, cercato e voluto. Ma sempre “caso” rimane, e l’importanza di questa casualità che può irrompere ad ogni istante nell’opera è, essenzialmente, quello che rende l’opera viva e la contestualizza. Così quando andai a visitare Palazzo Fabroni con Davide Dall’Ombra, il curatore della mostra, ci venne mostrata la stanza in cui avrei dovuto presentare I Am Not Legend proiettato su una parete di migliaia di libri. Meraviglia, era proprio la stanza di Parmiggiani. Un caso, una felicissima coincidenza, senz’altro, che ha portato alcune modifiche all’opera: lo “schermo di libri” è stato alzato affinché raggiungesse la stessa altezza della Scultura d’ombra di Parmiggiani e, al contempo, le copertine di quasi tutti i volumi sono state strappate, rendendoli bianchi anonimi e quindi in relazione diretta con le pallide ombre del capolavoro di Parmiggiani.
Le due opere – I Am Not Legend proiettato su questi libri anonimi e Scultura d’ombra – sono entrambe delocazioni che parlano di presenze, sottolineandone l’assenza tramite la cancellatura e lo strappo da un lato, e la proiezione di fuliggine dall’altro. Questo legame di identità assente/presente è rafforzato dal fatto che i libri che compongono il grande schermo arrivano in gran parte da fondi dismessi della biblioteca del Carcere Femminile di Bergamo.

Andrea Mastrovito – I am not legend, 2019-2020, 185 tavole originali, acrilico su fotocopia, 21 x 29,7 cm cad. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista.
Andrea Mastrovito – I am not legend, 2019-2020, 185 tavole originali, acrilico su fotocopia, 21 x 29,7 cm cad. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista.
Andrea Mastrovito – I am not legend, 2019-2020, 185 tavole originali, acrilico su fotocopia, 21 x 29,7 cm cad. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista.

MZ: Cosa scorre tra Nysferatu e I Am Not Legend? Quale è il denominatore comune, la quintessenza che fluisce in entrambi i lavori? E quali invece le differenze?

AM: L’ultimo fotogramma di NYsferatu – la Statua della Libertà a pezzi, con Manhattan distrutta sullo sfondo – coincide con il primo di I Am Not Legend, sebbene uno sia disegnato e l’altro una fotocopia: i due film sono l’uno il prosieguo dell’altro. Se nel primo si racconta delle cause della caduta della società, nel secondo se ne descrive l’annientamento progressivo, sino al foglio bianco.
Ma, come ricordavo in precedenza, i due film sono opposti e riflessi, si specchiano l’uno nell’altro: se da un lato NYsferatu, atto dopo atto, affonda nel nero (l’ultima battuta di Orlok è appunto “Hello Darkess, say goodbye!”), dall’altro I Am Not Legend, cancellatura dopo cancellatura, svanisce nel bianco, come se fossero l’uno la nigredo e l’altro l’albedo di un processo alchemico ancora da terminarsi. Potrei parlare per ore delle somiglianze e delle differenze fra le due opere, dalla ricchezza delle citazioni – negli sfondi nel primo, nei dialoghi per il secondo – sino alla figura dello zombie che è al contempo un “non-morto” come il vampiro ma che ne rappresenta la nemesi “spirituale”. Ecco, direi che c’è una terza figura “non-morta” che attraversa entrambe le opere: il Johnny di E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo. Un’invenzione letteraria straordinaria, più vera del vero, che negli anni (il libro è del ’39) ha avuto trasposizioni cinematografiche, teatrali, politiche, folkloristiche e musicali. NYsferatu si apre con un lungo riferimento a One dei Metallica (basata appunto sul libro di Trumbo) mentre, circolarmente, I Am Not Legend si chiude con una serie di citazioni dal libro e dalla stessa canzone, oltre che con l’immagine finale di questo fucile brandito dal Nulla su uno sfondo bianco.

MZ: Quale è il fil rouge che tiene unite le opere allestite a Palazzo Fabroni? Dopo l’allestimento hai colto nuove letture riguardando il percorso che si è venuto a creare nelle sale del museo?

AM: La video-installazione Johnny  (2006) è stata appunto la scoperta più interessante, persino per me, durante il percorso di ideazione della mostra con Davide Dall’Ombra. Davide insisteva che facesse parte del nostro rooster di “losers”, di antieroi su cui stavamo basando Io Non Sono Leggenda. Io ero un po’ scettico dacché si tratta di un lavoro molto più vecchio rispetto agli altri esposti, e con alcune difficoltà installative. Inoltre mi sembrava troppo ingombrante per quelle sale, sia a livello concettuale che fisico.
Una sera mi riguardai una vecchia video-documentazione dell’opera. E compresi perché la presenza in mostra di Johnny fosse necessaria: basata sul romanzo (1939) e sull’omonimo film (1971) di Trumbo, oltre che sulla trasposizione musicale dei Metallica, l’opera consiste in una videoproiezione su una griglia in carta di quindici metri quadri che, attraverso dozzine di rimandi sia al mondo del reale che ad altre opere di finzione, cerca di raccontare con musica, silenzio, immagini e oscurità l’orrore della situazione del soldato Johnny, “troppo morto per essere vivo e ancora troppo vivo per essere morto” – metafora di un limbo esistenziale che prima o poi attraversiamo tutti.
Ecco: in questa serie di rimandi continui, immagini, citazioni, realtà, finzione, orrore, luci ed oscurità, Johnny rappresenta il vero punto di partenza per NYsferatu e I Am Not Legend.
Con piacere ho notato, nei giorni successivi all’inaugurazione (quei pochi in cui è stata aperta prima della chiusura per covid…) che proprio Johnny è stata l’opera che ha colpito più profondamente il pubblico, in quanto inaspettata e dirompente. D’altronde in quella stessa opera possiamo riavvolgere il fil rouge della mostra di cui mi chiedevi: c’è il paper cut-out che ritroviamo nella prima stanza con L’isola del Dr. Mastrovito, c’è la griglia ed i giochi di luce di Andrea si è perso nella seconda stanza.  Ci sono sia la Crocifissione che l’ “Ingiustizia per tutti” degli intarsi nella terza stanza e naturalmente lo smembramento dei quattro arti (Johnny difatti è un “torso umano”, senza braccia né gambe né volto in seguito all’esplosione di una granata) che attende il Sant’Ippolito nella grande tela nella quarta stanza che precede proprio l’installazione di Johnny. E, naturalmente, come dicevo, tutti i rimandi che riportano ai due film in mostra per la tecnica di animazione, le citazioni, le tematiche etc…

MZ: In sospensione tra illusionismo e appropriazione del reale, La piccola isola del dottor Mastrovito (2010) è un elogio alla circolarità generativa e rigenerativa. I volumi di botanica e zoologia, ritagliati a mano col taglierino e tradotti in forma scultorea, costituiscono una macchia di presenze naturalistiche che paiono vive. Quale cortocircuito (o inganno dell’ambiguità) è nascosto in queste isole multicolori e paradisiache?

AM: L’opera accoglie il visitatore nella sezione “antologica” della mostra, che occupa tutto il secondo piano del museo, in undici grandi stanze. È un’accoglienza armoniosa, all’apparenza riassicurante dopo i fantasmi di I Am Not Legend al piano inferiore. L’isola del Dr. Mastrovito è una delle mie opere più pubblicate in assoluto e da oltre dieci anni gira i musei di mezzo mondo, ogni volta riadattandosi agli spazi ed ogni  volta…ingannando il pubblico su due livelli. Al primo impatto, difatti, sembra davvero di ritrovarsi in una piccola serra, con fiori ed animali veri. Solo avvicinandosi ci si rende conto che l’opera è in realtà un grande trompe l’oeil realizzato con migliaia di libri ritagliati. Un inganno che riporta sia al mito della Caverna di Platone che, più prosaicamente, al concetto attuale di fake news. Il secondo inganno è, invece, più sottile. Solo osservando attentamente la disposizione dei soggetti ci si rende conto che si tratta di una vera e propria…giungla, con animali feroci/pericolosi (serpenti, varani, felini di media taglia) pronti ad avventarsi sulle loro vittime (volatili, roditori, mammiferi di piccola taglia, insetti etc…) assolutamente ignare.
Il ciclo della vita, insomma, con le sue vite e le sue morti continue.

MZ: Come utilizzi il medium fotografico e come conduci le immagini nei tuoi lavori attraverso materiali (fotocopie, stampe, libri fotografici) derivate da fotografie o riprese?

Ingres nell’Ottocento asseriva che la fotografia sarebbe stata una straordinaria alleata dell’arte, della pittura e del disegno…ma che non si doveva mai dirlo, che doveva restare un segreto dei pittori. Ecco, diciamo che io non ho mai avuto un gran rapporto diretto con la fotografia come mezzo tecnico ed espressivo. Mi trovo in grande difficoltà, ad esempio, nel dover valutare la bontà o meno di un’opera fotografica, mentre ad esempio non ho questo problema nel pormi di fronte ad un’immagine in movimento, un video o un film. Ciò nonostante il medium fotografico è fondamentale per me, come punto di partenza, per la realizzazione di molte delle mie opere: l’immagine fotografica (solitamente digitale) viene rielaborata, stampata, ritagliata, semplificata, fotocopiata, resa essenziale e quindi rimontata come punto di riferimento per il disegno o l’installazione finale. Un ottimo e straordinario punto di partenza. Ma non diciamolo a nessuno…

Andrea Mastrovito, NYsferatu – Symphony of a Century, 2015- 2017, 60 disegni originali, matita su carta da lucido, 22,8 x 15,2 cm cad. Veduta dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista
Andrea Mastrovito, NYsferatu – Symphony of a Century, 2017 Film d’animazione, durata 1 h 6’. Proiezione a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e More Art, New York.
Andrea Mastrovito – NYsferatu LAST FRAME

MZ: Che significato dai ai righelli di plastica trasparente e con colori fluorescenti, strumenti di misurazione, sopra cui disegni con matita litografica? Nello specifico quali allusioni sono presenti nell’opera Andrea si è perso (2020), realizzata in occasione della mostra a Palazzo Fabroni?

AM: Da qualche anno utilizzo il righello sia per le mie Conversazioni che per i lightbox (o finestre, come a Pistoia): nel primo caso solitamente utilizzo i righelli in legno, mentre nel secondo preferisco, come ovvio, quelli trasparenti in plexiglass. Rappresentano, naturalmente, un pezzo di “reale”, incontrovertibile: misurano perfettamente lo spazio dell’opera, la distanza tra le figure, tra gli sfondi, come una sorta di prospettiva reale insita nell’oggetto. Nelle Conversazioni li uso per mettere in relazione vari oggetti (disegnati) tra di loro, o persino me stesso con il disegno sottostante, come se volessi misurarmi con esso: solitamente queste opere si intitolano Conversazione ragionata con…Edvard Munch, Francis Bacon, Mario Schifano etc etc…ed i righelli sono sovrapposti al disegno di una monografia dell’autore citato nel titolo. Sono anche un modo per raccontare alcune delle fonti del mio lavoro, oltre che a sottolineare l’importanza del disegno, che qui ricopre letteralmente parte dei righelli, rendendoli “trasparenti” rispetto al fondo sottostante. Da qui il passaggio ai lightbox/finestre ed ai righelli trasparenti, circa cinque anni fa, è stato breve. Ho iniziato dapprima con le finestre, i lightbox sono stati un’evoluzione successiva: incollare direttamente i righelli alle finestre mi permetteva di creare quest’illusione di misurabilità e conoscibilità del reale – il mondo visibile al di là del vetro – quasi fossero una sorta di prospettografo düreriano. Al contempo, disegnarvi sopra con le matite litografiche mi permetteva di ottenere sia un effetto “vetrata gotica” e mistica che di negazione della conoscibilità di cui sopra: il tratto cancella i numeri e le tacche dei righelli e li rende illeggibili, opponendo il mondo del racconto a quello del reale.
Nel caso di Pistoia, la finestra dà sulla facciata della chiesa di Sant’Andrea che contiene lo straordinario pulpito di Giovanni Pisano, con i suoi parapetti scolpiti, di cui il più conosciuto è senz’altro quello raffigurante la Strage degli innocenti. Per questo motivo sui righelli ho disegnato, direttamente in situ, una grande composizione floreale, di rimando sia alla stanza precedente (i fiori de L’isola del Dr. Mastrovito) sia agli innocenti di Giovanni Pisano che, pur inconsapevolmente, furono i primissimi martiri della fede cristiana: i fiori rappresentati difatti sono stati scelti tra quelli più comunemente accostati al martirio, vale a dire la palma, l’acanto, il garofano, il giglio, la rosa ed il melograno.

MZ: Recentemente hai sperimentato anche la tecnica del legno a intarsio. Perché hai scelto questa tecnica in relazione a Le Monde est une invention sans futur (2019)? Da dove hai attinto l’iconografia per i soggetti di questa serie?

AM: Mi interessava sacralizzare lo spazio espositivo. È qualcosa che tento spesso di fare, come ad esempio per la mostra At the end of the line alla GAMeC di Bergamo nel 2014, o per N’importe où hors du monde al Chateau des Adhemar di Montelimar nel 2015: l’arte è nata nelle chiese e conserva una sua innata sacralità, così quando se ne presenta l’occasione ed il luogo “chiama” un certo tipo di intervento, ne approfitto.
La Fondation Bullukian di Lione aveva queste grandi porte-finestre che davano sulla strada ed ho subito pensato di trasformarle in vetrate gotiche coi righelli. Il secondo passo era il pavimento: i pavimenti delle chiese sono ricchissimi di storia vissuta e calpestata, basti pensare alla meraviglia del Duomo di Siena ed ai suoi intarsi marmorei (Beccafumi su tutti). Così ho semplicemente provato a raccontare il nostro tempo attraverso una tecnica – ed una modalità narrativa – molto antica, usando come grimaldello i film dei Fratelli Lumiere – originari proprio di Lione – ed i loro personaggi, catapultati per l’occasione nel nostro tempo, per fronteggiarne le sue precarietà. Così gli innaffiatori innaffiati si ritrovano a maneggiare i cannoni d’acqua per ammansire una folla di manifestanti, o i bagnanti si confondono tra i migranti che scappano ad un naufragio così come gli operai che abbattono un muro si mimetizzano tra le rovine della guerra. In totale il pavimento intarsiato di Lione copriva oltre 120 metri quadri e trascinava, letteralmente, in una dimensione “altra”.

MZ: Entreresti più nel dettaglio dei due lavori a intarsio presenti nel Palazzo Fabroni, ovvero di (In)giustizia e Condanna (2019)?

AM: Sì, innanzitutto entrambi nascono da alcuni celebri proto-filmati dei Fratelli Lumiere: (In)giustizia  da Jongleur au ballon, del 1896, di cui viene ripresa la figura del giocoliere Félicien Trewey, e Vie et Passion du Christ, del 1898, da cui estrapolo il Cristo crocifisso.
In (In)giustizia il giocoliere è sovradimensionato e pressoché interamente realizzato con un collage intarsiato di dozzine di copertine di saggi storici, biografie e romanzi che raccontano più di un secolo di ingiustizie – il secolo e oltre che ci divide dagli esordi del cinema. Nella mano destra stringe un cilindro sul quale stanno, in equilibrio precario, due figure: un adulto ed una bambina. La bambina altro non è che l’allegoria di una Giustizia ancor giovane che non solo deve destreggiarsi per stare in piedi sul cilindro del giocoliere ma soprattutto deve mantenere l’equilibrio tra le varie bilance portate dal ramo antropomorfizzato che stringe tra le mani. Dietro di lei, un funambolo più esperto la aiuta (forse) nell’impresa. Entrambi hanno il volto sostituito da piramidi oblunghe, simili a coni, a simboleggiare l’ignoranza e la difficoltà di fronteggiare una situazione del genere. Sotto il pubblico guarda trepidante per capire da che parte penderanno i piatti della bilancia della Giustizia.
In Condanna, a fare compagnia al Cristo dei Lumiere, crocifisso sullo sfondo, sono due condannati a morte dell’ISIS: di fronte a loro il carnefice legge un comunicato che, a ben guardare, è composto da brani della Torah, della Bibbia e del Corano. I volti sono oscurati, pixellati come nelle foto online, per non urtare il pubblico – come se fosse solo il volto ad esprimere l’orrore della situazione.
Entrambe le opere si inseriscono nel racconto di anti-eroi che caratterizza tutta la mostra, coi loro martiri condannati e (in)giustiziati, a terra, calpestabili. Da un lato (In)giustizia col suo grande vestito di collage di copertine di libri rimanda direttamente al collage tridimensionale di libri de L’isola del Dr. Mastrovito, dall’altro i crocifissi ed i volti oscurati di Condanna sono prodromi del Johnny  che attende il visitatore due stanze più in là, nell’oscurità.

Andrea Masstrovito – Andrea si è perso, 2020, matita litografica su righelli, 211 x 107 cm. Courtesy dell’artista.
Andrea Mastrovito – Le Monde Est Une Invention Sans Futur III (Condanna) e IV (In-Giustizia), 2019, intarsio in legno e collage, 205 x 305 cm cad. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Fondation Bullukian.
Andrea Mastrovito – Johnny, 2006, videoproiezione su griglia in carta, 500 x 200 cm; durata 7’ 25’’. Courtesy dell’artista.
Andrea Mastrovito, The Island Of Dr Mastrovito, 2010-2012 1200 libri, dimensioni variabili. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Wilde Gallery, Ginevra.
Andrea Mastrovito, The Island Of Dr Mastrovito, 2010-2012 1200 libri, dimensioni variabili. Vista dell’allestimento a Palazzo Fabroni. Courtesy dell’artista e Wilde Gallery, Ginevra.