ATP DIARY

Intervista al curatore e critico Lorenzo Madaro

Intervista di Carlotta Bonura, Giovanna Calabrese e Leonardo Ostuni* Il curatore e critico d’arte Lorenzo Madaro ha iniziato da giovanissimo a esplorare i padiglioni della Biennale di Venezia e a scrivere di arte contemporanea sulle pagine pugliesi di Repubblica. Attualmente...

Veduta della mostra Umberto Bignardi. Sperimentazioni visuali a Roma (1964-1967), a cura di Lorenzo Madaro, Galleria Bianconi, Milano. Courtesy Galleria Bianconi, Milano

Intervista di Carlotta Bonura, Giovanna Calabrese e Leonardo Ostuni*

Il curatore e critico d’arte Lorenzo Madaro ha iniziato da giovanissimo a esplorare i padiglioni della Biennale di Venezia e a scrivere di arte contemporanea sulle pagine pugliesi di Repubblica. Attualmente scrive su Repubblica e Robinson, è docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Catania e collabora con diverse riviste di settore, tra cui Arte Mondadori, Artribune, Espoarte, ATP Diary. Ha curato o coordinato diverse mostre a Otranto, Lecce, Roma e Milano. È stato membro della commissione di selezione del Premio Termoli, a cura di Laura Cherubini e in mostra oggi, e direttore artistico del progetto europeo CreArt, Network of cities for artistic creation per il Comune di Lecce.
E’ stato da poco dato alle stampe da Skira il catalogo, da lui curato, della mostra ospitata al Museo RISO di Palermo di Christian Boltanski e Shay Frisch.

Nell’intervista che segue Lorenzo Madaro si racconta attraverso i suoi progetti di studente, le esperienze personali e professionali nei campi del giornalismo, della curatela e della critica. Il suo stile chiaro e immediato è fonte di ispirazione per molti giovani scrittori nel mondo dell’arte.  

Partendo dalla sua formazione, quanto è stato importante frequentare il master alla Cattolica in Museologia, Museografia e gestione dei beni culturali alla luce di quello che fa oggi? Consiglierebbe in particolare alcuni corsi post-laurea in ambito artistico? 

Potrei sembrare inopportuno, ma in un certo senso quel master non mi è servito assolutamente a nulla. Mi rendevo conto che c’era un distacco totale tra teoria e pratica. Non intendo dire con questo che i master non siano utili, anzi ce ne sono diversi tra Roma e Milano che prevedono esperienze concrete e dirette. È stato interessante, però, ascoltare lezioni di professionisti in questo campo, come Francesca Pola o Giuseppe Appella. Ho avuto la fortuna di scrivere per testate nazionali e riviste già durante gli anni universitari. Ciò che conta di più nei fatti è praticare il doppio filone, quello della teoria e quello dell’esperienza diretta, anche a costo di farlo gratuitamente. Organizzare una mostra o scrivere un articolo ti permette di avere un altro sguardo rispetto alle cose: io, infatti, ai miei studenti dell’Accademia di Catania faccio scrivere spesso recensioni, proprio perché la scrittura ha questa capacità di chiarire le tue idee e quelle degli altri. Credo che la scrittura sia una vera e propria palestra del pensiero.

C’è nei suoi ricordi un’esperienza, un’opera, una collaborazione o una figura che l’ha particolarmente segnata nel suo percorso di curatore e critico d’arte? O anche un progetto curato durante gli anni dell’Università grazie al quale ha capito di volersi dedicare a questa professione? 

Ho avuto la fortuna di capire cosa volevo fare nella vita a 13-14 anni. Allora frequentavo già la Biennale di Venezia pur abitando a Lecce, che non era esattamente il centro del mondo dell’arte contemporanea. Mi rivedo in ciò che scrive Crispolti, parlando della sua esperienza, nel libro Come studiare l’arte contemporanea: sono stati fondamentali alcuni saggi e testi, ma la cosa più importante è stata la frequentazione degli artisti.
Ho avuto la possibilità di conoscere gli artisti a vent’anni! Ricordo un personaggio delle mie parti: si chiamava Corrado Lorenzo e faceva il dentista di professione, ma era anche un collezionista di opere di Beuys, Boetti, Schifano e tanti altri. Una volta aprì l’armadio e tirò fuori uno scatolo di margarina di Beuys: fu una rivelazione per me, l’idea dell’opera come oggetto con cui condividere un percorso di vita quotidiana e domestica.

Daniele D’Acquisto, Strings, 2011-2013, materiali vari, dimensioni variabili. Courtesy Gagliardi & Domke, Torino

Direbbe che viene prima l’opera o l’artista?

Alcune volte artista e opera sembrano non corrispondere. È possibile vedere opere incredibili realizzate da artisti che non hanno una buona padronanza del linguaggio, o viceversa artisti molto colti e preparati che non riescono a formalizzare il loro lavoro in maniera concreta. In ogni caso le due cose non possono essere divise. Da quarant’anni Achille Bonito Oliva dice che l’artista è l’errore biologico rispetto all’opera d’arte, nel senso che l’opera persiste e l’artista muore. Certe cose vanno avanti a prescindere. Nella storia ci sono poi notevoli eccezioni come Joseph Beuys, artista scomparso da trentacinque anni ma la cui indagine è ancora assoluta. Di fondamentale importanza è la capacità dell’artista di ripensare costantemente sé stesso e la propria opera, capire come relazionarsi ad essa e come superarla, per non rimanerne ingabbiato.

Ha iniziato a scrivere molto presto sulle pagine pugliesi di Repubblica e su riviste di arte contemporanea. Come ha elaborato questo tipo di scrittura? Come cambia la scrittura da un contesto all’altro? 

Oggi i quotidiani sono letti un po’ da tutti. Siamo lontani dalla scrittura criptica e autoreferenziale, tipica degli anni Ottanta. Si pratica una scrittura critica chiara e informativa, che non significa cronaca in senso stretto, ma neanche la sola analisi di approfondimento. Nei quotidiani non devi dare mai nulla per scontato: talvolta è necessario informare il lettore, verso cui il giornalista prova un vero e proprio senso di responsabilità. Bisogna poi rispettare dei limiti. A volte mi capitava di scrivere un pezzo per una mostra di 850 battute; di fatto in meno della metà di queste dovevo tentare di parlare del contenuto, cosa non facile. Penso che l’esperienza più interessante nel lavoro di giornalista e critico d’arte sia l’intervista. Il vero metodo per scandagliare alcune questioni è intervistare qualcuno, interrogarlo. Hans-Ulrich Obrist è l’apoteosi assoluta di questo concetto di intervista: la sua capacità è quella di interpellare l’artista in questioni che vanno oltre il suo lavoro. In questo modo gli strumenti a disposizione per la conoscenza si articolano e si moltiplicano. Per un’intervista come quella che sto facendo a Giulio Latini (per un catalogo curato da Valentino Catricalà), artista che lavora dagli anni Ottanta sulla videoarte, è chiaro che le domande non sono secche come quelle che farei per una intervista su quotidiano. Le domande in questo caso sono più articolate perché devono inserirsi nel contesto più specialistico del catalogo.
Propongo una riflessione: e se in un’intervista si permettesse anche all’artista di porre degli interrogativi?

In merito alla stesura di testi per le mostre che cura, c’è una struttura, una logica, un particolare taglio che segue per scrivere? Ha un consiglio da darci in merito alla redazione di un testo per una mostra? 

Dipende dalle situazioni, banalmente dallo spazio dato a disposizione. Il limite di battute decide la selezione dei contenuti, ad esempio in 3000 battute non si può ricostruire la storia di un artista, analizzare in maniera sistematica il suo lavoro a livello di metodologia della ricerca. Aggiungo una riflessione: così come l’artista è legittimato a ripensare il proprio lavoro o addirittura a riproporlo identico per una mostra diversa dalle precedenti, non reputo sbagliato a volte fare un lavoro, ragionato ovviamente, di copia e incolla rispetto a quello che è stato già scritto.
A parte la citazione, che quando è pregnante si rivela utile per capire il pensiero di un artista, rimaneggiare contenuti scritti anni fa è un’operazione efficace nell’ottica di “recupero”. È anche una sorta di spazio di libertà del critico rispetto al proprio stesso impegno. Per esempio, mi sono occupato in molte occasioni dell’artista napoletano Baldo Diodato, vissuto per trentacinque anni a New York e poi tornato a Roma negli anni Novanta. Ad un certo punto è difficile scrivere qualcosa di nuovo rispetto a quanto è già stato detto. 

Ezechiele Leandro, particolare del Santuario della Pazienza. Fotografia di Francesco Spada.

Cosa l’ha spinta maggiormente a dedicarsi all’insegnamento della storia dell’arte in Accademia? Quali sono, a suo parere, gli aspetti più gratificanti di questo lavoro?  

La cosa interessante delle Accademie è la grande possibilità che si ha di ripensare la didattica giorno per giorno. È una grande forma di libertà, poi magari c’è chi ama la didattica classica fatta di lezioni frontali. Io preferisco un impegno che sia più di dialogo, rimetterci completamente in discussione e parlare apertamente di ciò che vediamo, anche rischiando di dire cose evitabili. Ciò che mi ha spinto è la voglia di ritagliarmi uno spazio per comprendere ciò che pensano i ventenni; è come stare su una piccola torre di avvistamento per capire gli umori e le prospettive future di uno studente di quell’età. Mi entusiasma il costante ripensamento della disciplina didattica, l’idea di portare dentro l’Accademia l’esperienza che si fa fuori e viceversa. Per esempio il ciclo di talk che sto curando con Ambra Stazzone e con l’Accademia di Catania, ha l’obiettivo di portare in questo ambiente delle esperienze concrete di lavoro. Noi pensiamo che l’Accademia sia il mondo dove si formano gli artisti di domani, ma ci sono tante interessanti professioni nel mondo dell’arte. Sarebbe bello formare queste figure dentro le accademie.

Quali sono i testi di riferimento, le letture che hanno contribuito a costruire il suo pensiero critico e curatoriale? 

Leggo molte cose anche semplicemente per capire i meccanismi, gli stili e le metodologie della scrittura. Di recente ho letto un’intervista di Celant a Isgró, pubblicata su un catalogo edito da Treccani Arte per la mostra alla Fondazione Cini di Venezia. Ogni domanda di Celant è un piccolo saggio di contestualizzazione storico-artistica. Sempre di Celant guardo spesso le cronologie sui suoi libri, soprattutto sui cataloghi generali degli artisti, per capire cosa accadeva nel mondo in quel particolare anno. Un altro testo che ho letto da poco è Controcorrente di Laura Cherubini, dedicato agli artisti solitari (Vettor Pisani, Marisa Merz, Gino De Dominicis e altri). L’autrice mette insieme l’analisi dell’opera contestualizzata a livello storico-critico e questioni apparentemente aneddotiche che rivelano il senso del lavoro di questi artisti. Consiglio infine la lettura del saggio Proposte per una critica d’arte, scritto da Roberto Longhi e pubblicato come editoriale della rivista Paragone negli anni Quaranta. Lo studioso passa in rassegna tutte le volte in cui, nella storia dell’uomo, l’azione reale si fa critica d’arte. Ma il messaggio importante riguarda la scrittura: si può divagare quanto si vuole, ma bisogna rimanere sempre vicini all’opera, che è la stella polare di tutto il percorso.

Da 7 anni dirige CreArt Network of cities for Artistic Creation per il comune di Lecce, una rete di oltre 10 città europee che ha lo scopo di massimizzare il contributo economico sociale e culturale delle arti visive. Definito come un “Erasmus per le arti visive”, la rete si prefigge lo scopo di sviluppare legami con i talenti e le comunità locali. In tale ambito progettuale come si inserisce e plasma la pratica della curatela?

Questo progetto nasce con lo scopo di mettere in connessione artisti giovani con delle realtà internazionali. Progetti del genere non sempre funzionano. Il problema principale è la rendicontazione, che deve necessariamente rispettare delle scadenze. L’attuale stato di emergenza sanitaria e le conseguenti limitazioni alla mobilità hanno complicato ulteriormente le cose, rallentando i lavori e posticipando le aperture al pubblico. Nell’ambito di un progetto europeo tali variazioni comportano un cambio di programmi e attività. È chiaro che il curatore non può limitarsi a svolgere un lavoro intellettuale, ma deve anche dialogare con la Pubblica Amministrazione per risolvere tali problemi e gestire al meglio il progetto. Nella pratica della curatela è fondamentale adattarsi al contesto in cui si opera e prendere il meglio dai diversi punti di vista.

Qual è stato il suo ultimo progetto curatoriale? A cosa sta lavorando adesso?

Attualmente sto lavorando alla collezione della Banca Popolare Pugliese. La raccolta comprende alcune litografie di Remo Brindisi degli anni Settanta e altri pezzi molto interessanti, dei quali poi bisognerà fare un’importante cernita.
Skira ha da poco pubblicato il catalogo, curato da me, della mostra di Christian Boltanski e Shay Frisch al Museo Riso di Palermo. Contemporaneamente sto organizzando una mostra dedicata a Banksy, che verrà inaugurata prossimamente al Castello di Otranto.

Lorenzo Madaro

* Intervista fatta da Carlotta Bonura, Giovanna Calabrese e Leonardo Ostuni durante una lezione tenuta da Elena Bordignon alla School for Curatorial Studies Venice (2021)