Flaminio Gualdoni è un noto critico e storico dell’arte, insegna all’Accademia di Brera, è stato direttore della Galleria Civica di Modena, dei Musei Civici di Varese e della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano. Quest’anno ha avuto l’incarico di curare tre edizioni del Premio Bugatti-Segantini proponendo, in questa prima edizione del suo mandato, una mostra retrospettiva di Tomas Rajlich (leggi l’intervista)
L’artista oltre ad essere in mostra nella storica Villa Brivio di Nova Milanese, inaugurerà l’8 ottobre una personale presso la galleria ABC di Genova: Black Paintings: 1976-79, dedicata a ciclo di opere originariamente esposte nella personale del 1979 al Gemeentenmuseum de L’Aia, arrivata al termine di un periodo che aveva visto l’artista svolgere un’indagine approfondita sulle potenzialità del colore nero in dialogo con l’approccio geometrico.
L’approfondito catalogo della mostra a cura di Michele Robecchi contiene a sua volta testo critico di Flaminio Gualdoni.
Simona Squadrito: E’ il primo anno che si trova a partecipare come curatore del Premio Internazionale Bugatti-Segantini, per lei è stato una sorta di “battesimo di fuoco”, visto che si è ritrovato a curare l’edizione di un periodo molto complesso al livello globale.
Qual’è stato il ragionamento che l’ha portato a selezionare e premiare Tomas Rajlich ?
Flaminio Gualdoni: In effetti la partenza è stata complicata, dal momento che ha coinciso giusto con il debutto dell’isolamento. Ciò ha comportato problemi diversi, come sappiamo, e un nuovo calendario delle iniziative. Per il resto, ho immaginato da subito che ci si dovesse concentrare su un orizzonte veramente internazionale semplicemente perché esso è nell’ordine delle cose: a separare gli ambiti culturali non è più, come in decenni passati, l’idea di “scuola” nazionale, ma la ben più prosaica struttura dei mercati. Da tre decenni lavoro con Rajlich, uno che è cresciuto in un luogo, è diventato grande artista in un altro, e ha scelto di vivere lunghi periodi in Italia, sul Garda; uno che, quanto al lavoro, è un frutto perfetto della congiuntura extranazionale in cui trovavi Manzoni (il quale esponeva più facilmente a Rotterdam e Copenaghen che a Milano) e Gruppo Zero e un tipo come Mavignier, brasiliano diventato tedesco che trovava normale andare in Vespa dalla Germania a Zagabria per organizzare una mostra, quella dunque che ha davvero messo in mora i localismi artistici. Uno che, come questi precedenti, devi definire europeo, prima di tutto.
S.S: Come si evince dal titolo della mostra: Tomas Rajlich. Opere 1972-2018, è stato selezionato un corpus di opere capace di mostrare buona parte del percorso artistico di Tomas Rajlich, si tratta infatti di opere realizzate in cinquant’anni di lavoro.
Com’è pensato l’allestimento della mostra nelle sale di Villa Brivio?
F.G: La scelta delle opere, così come il percorso dell’allestimento, nasce da Tomas stesso: è, nella storia lunga della sua pittura, una serie di exempla che traccia la vicenda dei suoi corsi problematici, di come si sono dipanati a partire da una scelta radicale, che è stata quella che ne ha fatto uno dei protagonisti di “Fundamentele Schildernkunst”, la mostra dello Stedelijk di Amsterdam che nel 1975 accomunava autori come Bob Ryman, Gerhard Richter, Brice Marden, Robert Mangold, Agnes Martin, Raimund Girke, Jerry Zeniuk, per indicare il clima.
S.S: Sono state diverse le occasioni in cui ha lavorato con Tomas Rajlich. Nel 2018 ad esempio è stato il curatore della mostra antologica Tomas Rajlich – Fifty years of Painting presso la galleria ABC-ARTE di Genova. Come ha conosciuto l’artista? Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinto a sostenere e seguire la sua ricerca?
F.G: Quella del 2018 è stata l’ultima mostra ampia che gli ho dedicato. La prima è stata quella che ho curato nel 1993 al Palazzo Martinengo di Brescia, che fu tra l’altro la sua prima antologica e voleva storicizzare una ricerca che in quegli anni, complici le mode culturali, si tendeva a considerare esaurita: io, per parte mia, studioso di lungo corso di Fontana e di Manzoni, vi vedevo invece soprattutto l’evoluzione non banale della “Monochrome Malerei” annunciata nel 1960 al museo di Leverkusen, dunque un fenomeno all’opposto che transitorio.
S.S: Scorrendo il curriculum dell’artista ho notato che l’Italia è uno dei Paesi in cui ha lavorato maggiormente, sono infatti numerose le mostre che lo vedono coinvolto. C’è un motivo particolare per cui l’artista è particolarmente apprezzato e seguito in Italia?
F.G: La prima volta che ho visto il suo lavoro fu nel 1974, ero ancora all’università, da Françoise Lambert a Milano, una galleria fondamentale di cui mi pare che si tenda a scordarsi. Poi sono venute, dagli anni novanta, alcune presenze italiane importanti: era il tempo della riscoperta definitiva di Rajlich, e da noi una nicchia non banale lo ha sempre considerato, a ragione, un autore primario.
S.S: In uno dei suoi testi critici dedicati all’artista si legge: « Di quadro in quadro, la tensione spirituale nella pittura di Rajlich evolve, respira: vive. Trascolora, in questi quadri, l’elemento attualistico, l’originaria componente del sentirsi avanguardia, e resta la pittura: “una zona di purezza, di bellezza, di benessere, di concentrazione, di semplicità, d’essenziale, d’integrità ». Cosa intende per “tensione spirituale” ?
F.G: Indico che Tomas in realtà non fa mai “il quadro”, la sua analitica della pittura è sempre qualitativa non quantitativa, guarda ben oltre la pellicola del visivo. Ci mette l’anima, davvero, e il suo pensare colore e luce introduce condizioni straordinarie d’esperienza con cui mettersi in consonanza.
S.S: A meno di un mese dall’inaugurazione del Premio Internazionale Bugatti-Segantini, verrà aperta al pubblico Tomas Rajlich: Black Paintings 1976-79 , una mostra dedicata al periodo che ha visto l’artista svolgere un’indagine approfondita sulle potenzialità del colore nero. In occasione di questa mostra allestita presso la galleria ABC-ARTE, verrà presentato il catalogo monografico a lui dedicato in cui lei, insieme a Michele Robecchi , siete autori degli scritti critici. Vuole anticiparci qualcosa sul periodo “al nero” di Tomas Rajlich ?
F.G: Alla mostra dei Black Paintings Robecchi e io abbiamo lavorato ragionando e godendo un bel po’. Non è un altro percorso di Tomas, ma quello in cui forse più chiaramente si sostanzia il suo modo di pensare colore (il “noir couleur” dei francesi) e si radica la sua monocromia: ragionando su Malevič, Reinhardt, Rothko, ma anche su Matisse. Concludo il mio testo citando l’Edmond Jabès del Libro della sovversione non sospetta: anche in Rajlich “il minimo chiarore è sospetto d’universo”.