Intervista con Binta Diaw

"Il sentimento di appartenenza è, se volete, innato. Quando nasciamo e cresciamo, sappiamo di appartenere ad una terra, ad una lingua ed una cultura, senza che nessuno ce lo spieghi. Tuttavia, quando abbandoniamo la città in cui viviamo, dove siamo nati, questo sentimento prende vita in noi e si traduce in nostalgia. Una nostalgia e un attaccamento all'Italia, un paese che mi considera basandosi sul colore della mia pelle. Ma come è possibile vivere tra appartenenza e stranezza? "
18 Marzo 2021
Binta Diaw, Uati’s wisdom (2020), Waves between us, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Courtesy of the Artist.
Binta Diaw, Uati’s wisdom (2020), Waves between us, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Courtesy of the Artist. Detail

Binta Diaw è un’artista italo-senegalese nata a Milano nel 1995. La prima volta che ho incontrato il lavoro di Binta è stato a distanza, nella documentazione della mostra “SOIL IS AN INSCRIBED BODY” da SAVVY a Berlino, in un periodo in cui studiavo lo scambio teorico tra Mariarosa Dalla Costa e Silvia Federici. Nella sua ricerca, Binta utilizza una metodologia femminista, afro-diasporica e intersezionale basata sull’esperienza fisica personale di donna nera di seconda generazione in un contesto occidentale. La sua pratica è una sfida allo sguardo eurocentrico e anche una messa in discussione delle percezioni di italianità e africanità. Questa intervista è stata realizzata in un periodo esteso ed è iniziata quando Binta stava in residenza in Viafarini e allestiva Nero Sangue, secondo capitolo di The Recovery Plan al MAGA di Gallarate a cura di BHMF in collaborazione con Simone Frangi.

Sara Benaglia: Il secondo capitolo di The Recovery Plan di BHMF al Museo MaGA di Gallarate è stato il tuo progetto Nero Sangue, a cui hai lavorato in un confronto con Angelica Pesarini, docente di Sociologia alla New York University di Firenze. In che modo hai formalizzato questo progetto, in cui il colonialismo e il fascismo italiani si rivedono nella inferiorizzazione contemporanea dei braccianti africani in Calabria, in Puglia?

Binta Diaw: Il progetto è nato in modo naturale. Oltre ad essere amiche e compagne in varie lotte, il focus sul Corpo Nero nelle nostre pratiche, ha fatto sì che nascesse una conversazione multidisciplinare. La formalizzazione del progetto è nata mettendo in dialogo tre opere indipendenti che si sono però sapute legare in un unico elemento installativo. Le tre opere sono: la serie In Transfer, la scultura Nero Sangue (da cui è tratto il titolo del progetto) e la traccia sonora Chorus of Zong. Attraverso la presenza di due pomodori neri organici, coltivati e raccolti da braccianti migranti, alla presenza di corpi, visi, e sguardi di donne, uomini e bambini tratti da La Difesa della Razza; in dialogo con voci di giovan* italian* della Diaspora Africana, la mostra rievoca e crea uno spazio di criticità dove spazio, tempo, corporeità e rappresentazione s’intersecano. Il progetto, nella sua complessità ha cercato di denunciare la sistematica e meccanica violenza esperita da Corpi Neri nelle campagne italiane, producendo una contronarrazione visuale.

SB: Hai presentato l’installazione Uati’s Wisdom (2020) in Waves Between Us alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Quest’opera, come il tuo precedente lavoro Don’t (2019) è costituita da capelli. Che cosa rappresenta questa materia per te?

BD: I capelli oltre ad essere una materia sono un’estensione del corpo. I capelli crescono dal corpo stesso in seguito a un processo fisiologico. Proprio come con i corpi, le terre, le piante e gli animali, anche i capelli sono stati soggetti a costanti processi di colonizzazione. Questo processo ha permesso al capello di snaturarsi assumendo funzioni, significati e valori dettati esclusivamente da norme estetiche eurocentriche. Il mio lavoro cerca proprio di rompere queste norme presentando il capello come strumento di lotta e rivendicazione.

DONT’
“If you want to know more about a woman, a black woman, of course, touches her hair.
Because our hair carries our way. Because it is here that we carry all our hopes, all our
dreams, our wounds, our disappointments.
They’re all in our hair”

Trey Anthony

SB: Hai da poco chiuso alla Galleria Cécile Fakhoury a Dakar la mostra collettiva “I have this memory, it is not my own”, in cui hai presentato alcune tue fotografie della serie Paysages Corporels. Queste immagini hanno degli interventi grafici apportati direttamente con gessi colorati sulla stampa. In un presente che tende a incorporare post produzione e tecnologia, questo tuo approccio alla stampa fotografica è piuttosto inusuale. Com’è nato questo lavoro?

BD: La serie di Paysage Corporels è nata in una fase della mia vita in cui mi sono messa in discussione in quanto essere, donna e in quanto essere Corpo. Le fotografie sono state rielaborate dopo la stampa, con del gessetto, tracciando sulla loro superficie tracce di colore che tramutano le linee e le forme del corpo in viaggi, percorsi, paesaggi armoniosi e idealmente infiniti. Queste tracce sono il risultato di un processo di interrogazione identitaria e corporale e di un’interrogazione legata al movimento ciclico femminile, della Natura e delle sue complessità.
Durante la pandemia, ho sofferto all’idea di essere costretta a stare lontana dalla Natura. Questa distanza fisica, mi ha consentito di scoprire e comprendere la Natura inscritta nel mio corpo e le molteplici relazioni tra di essi. La Natura dentro di me mi ha nutrito e guarito. Ho letto molto, e mi sono resa conto dell’importanza della nozione di Agricoltura nel pensiero ecofemminista. L’agricoltura è la cultura della cura e dell’amore. Ho realizzato che “cultura del corpo” può essere vista come una nuova parola per esprimere come un corpo può insegnarci ed educarci a prenderci cura di noi stesse e ad amare accettando tutte le forme di vita esistenti.
Questo lavoro è il risultato della messa in discussione di me stessa in un’epoca in cui i corpi sono sistematicamente veicolati da narrazioni strettamente legate alle nuove tecnologie. 
Lavorando su questo, e nutrendomi di pratiche ancestrali legate alla Natura, ho capito l’importanza di essere sempre collegata alla Terra attraverso l’ organicità del mio corpo. Grazie a questa idea di reciprocità, vedo un futuro consapevole dell’intelligenza e dei saperi dei nostri corpi.

Binta Diaw, Essere corpo (2019), Still video, Courtesy of the Artist.
Binta Diaw, Chorus of soil (2019), SOIL IS AN INSCRIBED BODY. ON SOVEREIGNTY AND AGROPOETICS, Savvy Contemporary, Courtesy of the artist, ph. Raisa Galofre. Detail.
Binta Diaw, Chorus of soil (2019), SOIL IS AN INSCRIBED BODY. ON SOVEREIGNTY AND AGROPOETICS, Savvy Contemporary, Courtesy of the artist, ph. Raisa Galofre.

SB: In che modo gli scritti di Alice Walker informano la tua opera?

BD:What does it mean for a black woman to be an artist in our grandmother’s time?*” è una domanda di Alice Walker, tratta da In search of our mother’s gardens (1983). Walker sviluppa una narrazione basandosi su eventi storici, così come sulle esperienze collettive di donne e di uomini afroamerican*, inclusa la sua. Le madri e le nonne dell’epoca che descrive, sopportavano un’oppressione imposta, senza alcuna speranza che il giorno dopo sarebbe stato diverso o addirittura migliore. A causa di questo, non erano in grado di esprimersi pienamente. Erano ostacolate dalla loro società. Nel titolo, c’è un riferimento al “giardino delle madri”; l’autrice testimonia in prima persona che, sebbene sua madre non fosse un poetessa o una romanziera, era un artista nel vero senso della parola. Il suo lato artistico si manifestava nei suoi giardini e nei bellissimi fiori che coltivava. Questo giardino, quindi, diventa uno spazio protetto: uno spazio fisico e intimo dove si vede come la forza, il coraggio e la cura si manifestano in nuove forme di auto-espressione. Il giardino diventa un simbolo che ci collega ai nostri antenati e alla loro eredità. La profondità di questo testo e la sua contemporaneità mi hanno portato a riflettere, a livello identitario, culturale e politico, sulle dinamiche della mia società. Affascinante è l’importanza dello storytelling. Nel giardino venivano tramandati saperi, vissuti e storie attraverso racconti orali.
Questa domanda*, fa parte di una forma di interrogazione che mi coinvolge ogni giorno. Attraverso la mia pratica artistica cerco di dare risposte che possano articolare nuove strategie di rivendicazione e decostruzione identitaria, contro il dominio capitalista, patriarcale delle società occidentali sostenuto da un privilegio bianco di potere.

SB: L’anno scorso hai presentato Chorus of Soil da SAVVY, Berlino nella mostra Soil is an Inscribed Body. On Sovereignty and Agropoetics. In questo lavoro è evidente la planimetria di una nave da schiavi del diciottesimo secolo, ridisegnata con del terriccio in cui sono piantati semi di melone. Qual è la genesi di questo lavoro e che cosa ti ha dato poterlo mostrare in uno spazio di arte e ricerca incentrato sul dialogo e lo scambio tra diversi medium artistici non eurocentrici?

BD: Il lavoro si è formalizzato dopo anni di osservazioni, riflessioni e sconforto. L’idea è partita da immagini storiche, divenute icone di rivendicazione e riappropriazione nera, in cui sono raffigurate le planimetrie di una delle tante imbarcazioni della tratta atlantica. La scelta di utilizzare la terra, mi ha permesso di creare uno spazio-entità vivente che racchiude storie, vissuti, e racconti di un passato corale ancora presente ai giorni nostri. Mostrare Chorus of Soil a SAVVY è stato emozionante. L’installazione ha trovato ospitalità in uno spazio consapevole, critico e generoso ed è riuscita a dialogare con la città. Da quell’esperienza mi sono portata dietro i confronti con varie personalità, la sensibilità dello staff nel prendersi cura dell’opera intesa come entità vivente e la commozione delle persone.

SB: Tre schermi allineati con immagini in bianco e nero costituiscono la video installazione Essere corpo (2017-19). Che cosa si vede negli schermi e come leggere la tripartizione dell’immagine? 

BD: Essere corpo è un video performativo che si inscrive in una rivendicazione eco-femminista, in risposta alle dinamiche capitaliste e patriarcali che caratterizzano l’attuale società occidentale.
Il posizionamento in questa logica ecologica e femminista, cerca di indagare e decostruire le metodologie di oppressione sulle donne, sulla Natura e le messe in pratica di azioni umane che di giorno in giorno permettono la continuità di dissonanze tra essere umano* e Natura. A partire dal suolo, dalla terra come luogo di nascita, si creano possibilità di aprire connessioni tra tempo e spazio permettendo al corpo di fare esperienza con l’organicità della Natura. Queste esperienze ci inducono a pensare il mondo nella sua materialità, rendendoci grati e consapevoli di quanto la natura sia essenziale per la nostra sopravvivenza e per una maggiore conoscenza di noi stessi. Trovo importante parlare di “decentramento”. Dal momento in cui noi, in quanto corpi, consideriamo l’esistenza di altre forme di vita, mettiamo in atto una continuità di “Othering”. Il video, dunque è un ritorno a ciò che siamo e da dove veniamo. La scelta del bianco e nero deriva dalla volontà di astrarre l’immagine, focalizzandosi sul movimento e sull’azione. La scelta di posizionare tre schermi che in contemporanea riproducono il video, cerca di far emergere una forte componente legata alla ritualità e alla circolarità del tempo.

SB: In Toubab bou ñuul (2019) un microfono è allestito davanti alla parola “Toubab”, formata da tessuti rossi verdi e gialli – che richiamano la bandiera del Senegal – arrotolati a formare le sei lettere. Che cosa significa questo termine?

BD: La nuova generazione italiana vive e convive con vergogna, dubbi, complessità e instabilità identitarie e di appartenenza. Il senso di appartenenza gioca un ruolo fondamentale  e delicato sulla gioventù di discendenza Africana che si trova a metà strada tra due o più radici. 
Il sentimento di appartenenza è, se volete, innato. Quando nasciamo e cresciamo, sappiamo di appartenere ad una terra, ad una lingua ed una cultura, senza che nessuno ce lo spieghi. 
Tuttavia, quando abbandoniamo la città in cui viviamo, dove siamo nati, questo sentimento prende vita in noi e si traduce in nostalgia. Una nostalgia e un attaccamento all’Italia, un paese che mi considera basandosi sul colore della mia pelle. Ma come è possibile vivere tra appartenenza e stranezza? Questo rifiuto dell’italianità apre altre porte: dimensioni identitarie piuttosto complesse. In seguito a questo rifiuto, ho iniziato a pensare alla mia blackness, cioè alla mie radici. L’installazione è una riflessione-provocazione sulle denominazioni identitarie che si sono costruite nel corso della nascita delle prime Diaspore Africane in Europa.
Personalmente, sono legata a questa parola. Toubab è una parola che indica il bianco, l’europeo. Le origini della parola arrivano dalla parola Toubib in arabo che designava la figura del medico occidentale in Africa in piena colonizzazione. Il termine viene tutt’oggi utilizzato nel gergo comune. 
In Senegal, la mia famiglia mi vede e mi percepirà come una “toubab bou ñuul”, una donna nera dal comportamento “europeizzato”. Le contraddizioni e le complessità di questa parola identificativa, realizzata con strisce della bandiera senegalese, sono in dialogo con una traccia sonora che ripercorre momenti di marce, cori, urla e grida durante i festeggiamenti che, ogni quattro aprile, celebrano l’indipendenza del Senegal dalla Francia. Un suono che testimonia una festa, una celebrazione che ancora oggi ci lega al colonizzatore.

Binta Diaw, Essere corpo (2019), Still video, Courtesy of the Artist.
Binta Diaw, Toubab bou ñuul (2019), Courtesy of the Artist.
Binta Diaw, Nero sangue (2020), Museo MA*GA Gallarate, Courtesy of the Artist, ph. Jemma Robin Thompson.
Binta Diaw, Serie Transfer (2020-ongoing), Courtesy of the Artist, ph. Jemma Robin Thompson.
Binta Diaw, Paysage corporel V (2020), Courtesy of the Artist, Galleria Giampaolo Abbondio.
Binta Diaw, Paysage corporel VI (2020), Courtesy of the Artist, Galleria Giampaolo Abbondio.
Binta Diaw, Don’t (2019), Courtesy of the Artist.
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