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Intervista a Caterina Molteni | L’isola portatile, ADA

Fino al 28 luglio 2018 la galleria ADA di Roma ospita la mostra collettiva L’isola portatile, a cura di Caterina Molteni. Il titolo prende è anche quello del dipinto (1930 ca.) di Alberto Savinio, in cui, come dice la curatrice, “viene rappresentato un paesaggio misterioso immerso in un ambiente a metà tra il reale e […]

Alice Visentin Samarcanda (Uomo con cappello e cavallo), 2017 oil on canvas 147 x 127 x 4 cm
Alice Visentin Samarcanda (Uomo con cappello e cavallo), 2017 oil on canvas 147 x 127 x 4 cm

Fino al 28 luglio 2018 la galleria ADA di Roma ospita la mostra collettiva L’isola portatile, a cura di Caterina Molteni. Il titolo prende è anche quello del dipinto (1930 ca.) di Alberto Savinio, in cui, come dice la curatrice, “viene rappresentato un paesaggio misterioso immerso in un ambiente a metà tra il reale e il fantastico. Il lavoro circoscrive uno spazio immaginario: una piattaforma che non corrisponde ad un’immagine completamente nuova del mondo, ma che si compone di elementi naturali ed esotici, di oggetti quotidiani della cultura borghese e di riferimenti letterari mitologici”. Dunque il titolo diventa tautologia della pratica dell’artista, che intende, attraverso il processo del suo lavoro, portare lo spettatore verso la visionarietà, il racconto e l’immaginazione, “per ricongiungere sensibilità e intelletto, un esercizio di pensiero che nella storia della cultura è apparso e scomparso costantemente sotto forma di mito, favola e leggende, manifestandosi in ritualità quotidiane e in culti mistici. Tutte queste pratiche, oltre a mostrare la capacità creativa dell’uomo, sono oggi gesti di resistenza verso un preciso modo di comunicare, di codificare e rappresentare i fatti”.

Gli artisti esposti sono: Benni Bosetto, Guendalina Cerruti, Lisa Dalfino e Sacha Kanah, Diego Gualandris, Viola Leddi, Riccardo Sala, Namsal Siedlecki, Alice Visentin.

Seguono alcune domande a Caterina Molteni.

ATP: Questa mostra offre la possibilità di osservare la permeabilità dell’arte nei confronti di ciò che non vediamo perché accecati da un troppo sentire: non vedere la vita perché tutto è vita. Come parlano del mondo gli artisti che hai scelto per la mostra?

Caterina Molteni: Gli artisti hanno scelto di parlare del mondo ritagliandosi uno spazio preciso per osservare la propria identità culturale e l’origine iconografica del loro immaginario, riabilitando sentimenti e stati d’animo che raramente vengono messi in campo.

Il contesto socio-politico occidentale si struttura su una intensificazione della comunicazione istantanea del quotidiano creando delle forme di racconto che standardizzano il ‘come’ raccontare la propria storia. Torna secondo me centrale capire come parlare del mondo riappropriandosi del proprio immaginario culturale ed emotivo per vivificare l’attività umana che oggi si trova più frustrata: l’immaginazione.

L’immaginazione è stata screditata per decenni come estensione naïve dell’attività del pensiero, mentre per diversi filosofi politici è tra le attività umane più importanti.

Hannah Arendt ne fa attività fondante dell’agire politico perchè parlare del mondo attraverso l’immaginazione significa, nello stesso tempo, pensare il nuovo e riconoscere l’originale del passato proiettandosi sul presente e verso futuro.  

ATP: Il titolo dà una chiara direzione alla curiosità dell’osservatore. In che modo il mondo di Savinio è matrice, o al contrario traduzione, di quello che le opere qui esposte veicolano?

CM: Ho incontrato per la prima volta l’opera di Savinio in occasione di una visita al riallestimento della Collezione permanente della GAM di Torino dove il lavoro è oggi visibile. Si tratta di un paesaggio tropicale in bianco e nero che si staglia su un tavolo circondato da un mare/cielo dalle tinte scure. Questo piccolo quadro esemplifica due concetti importanti della mostra: uno è un tema tipico della pittura metafisica e surrealista cioè quello di piattaforma, l’altro è quello di immaginario. L’immaginario è inteso qui come una dimensione della memoria individuale e collettiva che si sviluppa in modo non strettamente razionale e che è quindi difficilmente veicolabile analiticamente. Componendosi di elementi provenienti dal passato e dalle origini degli artisti, ciò non si traduce necessariamente in una semplice rievocazione del classico ma nella creazione di dispositivi di visione in cui riecheggia l’atmosfera di questa strana forma di memoria visiva e culturale.

Diego Gualndris Antonelloboy, 2017 oil on canvas 60 x 40 x 2 cm
Diego Gualndris Antonelloboy, 2017 oil on canvas 60 x 40 x 2 cm

ATP: Nel comunicato si parla di “racconto” e “storia”, dimensioni narrative che implicano per natura una logica, anche laddove tutto è visionario, metafisico, riflettente. Qual è la logica di questa mostra? Cosa “racconta”?

CM: La mostra vuole sottolineare una sensibilità mettendo insieme artisti nati tra il 1992 e il 1993 con altri poco più grandi nati tra il 1987 e il 1981. Il progetto è parte di un tentativo generale di creare delle linee di lettura nella recente arte italiana. Una seconda parte di questa riflessione sulla narrazione sarà sviluppata in una mostra in apertura martedì 26 giugno presso la Fondazione Baruchello di Roma che osserverà in particolare la dimensione di pensiero che la forma narrativa produce.

ATP: È interessante quello che si dice rispetto alla potenza immaginativa degli artisti: “oltre a mostrare la capacità creativa dell’uomo, sono oggi gesti di resistenza verso un preciso modo di comunicare, di codificare e rappresentare i fatti”. Mi parleresti di questo “modo” e delle modalità di allontanamento da esso?

CM: Ciò a cui mi riferisco è quello che è stato negli ultimi anni descritto come una generale ipernormalizzazione (vedi Hypernormalisation di Adam Curtis) ed epoca della post-verità, due condizioni che, alimentandosi reciprocamente, basano il loro sviluppo e consolidamento sulla natura delle piattaforme digitali e sulle modalità di fruizione del quotidiano che queste producono. è interessante come parallelamente a questo contesto si sia sviluppato nell’arte d’oggi un’attenzione per emotività e sensibilità, per una percezione più intensa di sé e del mondo attraverso pratiche di cura del sé. In questo processo di cura, l’opera d’arte ha un ruolo centrale poiché permette la creazione di luoghi e occasioni in cui la percezione e il coinvolgimento intellettuale si innescano e possono essere coltivati.

ATP: A tuo parere, la parola scritta ha influenza sugli artisti? Se sì, in che misura? E nel caso di quelli che presenti da ADA?

CM: La parola scritta ha influenza sugli artisti da sempre: da una parte è una delle prime fonti di studio, dall’altra può essere un’estensione della propria pratica come nel caso di Diego Gualandris che lega i propri lavori alla scrittura di fiabe e brevi racconti da cui prende spunto per nomi, titoli e scenari da dipingere.

Nello stesso tempo la parola scritta ha la capacità di “costruire mondo”: una pratica fondante del pensiero più recente della teorica statunitense Donnah Haraway che sostiene come l’attività di scrittura e di racconto di storie apra a nuove relazioni con il mondo organico e inorganico. Nel processo di scrittura è spesso infatti in atto una ridefinizione del mondo reale attraverso la creazione di attori, di società possibili e di nuovi alleati.

Benni Bosetto Voladores, 2018 ink on fabric 260 x 65 cm
Benni Bosetto Voladores, 2018 ink on fabric 260 x 65 cm
Riccardo Sala Untitled, 2017 tempera on canvas 80 x 60,5 x 2 cm
Riccardo Sala Untitled, 2017 tempera on canvas 80 x 60,5 x 2 cm
Namsal Siedlecki Limes, 2017 glass, wolf ashes 20 x 16 x 3 cm
Namsal Siedlecki Limes, 2017 glass, wolf ashes 20 x 16 x 3 cm
Guendalina Cerruti Frozen here, 2017 mixed media 136 x 120 x 66 cm
Guendalina Cerruti Frozen here, 2017 mixed media 136 x 120 x 66 cm