In the Belly of the Serpent è la nuova personale di Gianni Politi negli spazi romani della galleria Lorcan O’Neill.
Il testo che la accompagna, scritto di pugno dall’artista, è una via di mezzo tra una dichiarazione d’intenti e un testo poetico.
“Sono nato (forse si) dentro la pancia del serpente, poi, col tempo, muovendomi tra le sue viscere, sono diventato il serpente stesso. E adesso annuso, assaporo, guardo, tocco con due nasi, due lingue, due paia d’occhi. Tocco le cose in maniera diversa”.
Toccare le cose in maniera diversa significa anche amplificare la percezione di ciò che sta attorno, insinuandosi nelle aree più interstiziali per arrivare poi a riemergere. Il serpente diviene il simbolo archetipico delle infinite possibilità di rigenerazione dell’individuo, della pittura, dell’arte, elemento di congiunzione tra terra e cielo, entità salvifica che cambia forma ed è in continua mutazione.
Quella di Politi è una pittura materica, con interpolazione di elementi scultorei in bronzo – come l’installazione di serpenti in bronzo dorato ai lati di alcune delle cornici. La scelta di incorniciare il quadro è a questo punto significativa. La cornice racchiude un universo, lo circoscrive, ne definisce i confini, che sono poi i confini di una finestra tracciata a metà tra interno ed esterno, tra ciò che è dentro e ciò che inevitabilmente rimane fuori. Il serpente striscia su questa cornice, fa da monito e diviene un custode che osserva e scruta.
Sono più di venti le opere in mostra, dagli olii su tela di grandi dimensioni ai piccoli quadri ispirati al ritratto tardo settecentesco di Gaetano Gandolfi, che diventa uno studio metodico e ripetuto sulla suggestione che Politi trae dall’opera ma anche uno spunto per fare e disfare la figura aprendola a nuove e impreviste significazioni.
Attraverso l’espansione della superficie pittorica, servendosi di accostamenti tonali e cromatici, Politi libera il medium dalla asfissiante alternanza di astrazione e figurazione, dimostrando che la tela è una superficie sensibile su cui si imprimono strati di memoria. La compenetrazione del colore con la figura e la completa dispersione di quella stessa figura di cui si compone l’immagine – mnemonica, esperienziale, mediata – sono gli elementi fondanti di un linguaggio che di per sé stesso appare come testimonianza dell’esserci.
I lavori presentati da Gianni Politi sono anche questo. Dipinti solidi, entità certe, che riflettono in maniera ossessiva sulle capacità di visualizzare le infinite e ripetute combinazioni di ricordo, sensazione, suggestione, che si sovrappongono e invertono costantemente come a riprodurre la figura dell’ouroboros, il serpente che morde la propria coda.
Allo stesso modo, la processualità intrinseca nella modalità di dipingere di dell’artista – che reimpiega lacerti di pittura di dipinti precedenti per farne di nuovi – diviene il sinonimo di una stratificazione combinatoria in cui il tempo si sedimenta sulla tela per conferirle una nuova pelle.
C’è un testo seminale di Aby Warburg, Schlangenritual. Ein Reisebericht, comparso nel 1939 sul Journal del Warburg Institutea seguito della conferenza tenuta del 1923 nel sanatorio di Kreuzlingen, in cui questo animale magico che è il serpente – che attrae e repelle al tempo stesso – diviene il simbolo che racchiude il potere demandato alle immagini. “[…] Nella danza del serpente a Walpi”, scrive Warburg, “si costringono i serpenti a un ruolo di mediazione. Nel mese di agosto, quando devono arrivare i temporali, i serpenti vengono catturati vivi nel deserto nel corso di una cerimonia che a Walpi dura sedici giorni; quindi sono custoditi dai capi dei clan dell’antilope e del serpente nella camera sotterranea, la kiva, dove vengono sottoposti a riti particolari, il più significativo dei quali è il loro lavacro. Il serpente viene trattato come un iniziando ai misteri, e nonostante la sua riluttanza immerso con la testa nell’acqua consacrata, in cui sono state sciolte varie sostanze medicamentose”. Si tratta, d’altronde, del potere delle immagini di ferire e, al contempo, guarire.