Certamente non facile è la missione che si prospetta per il neo eletto direttore artistico del MACRO di Roma Luca Lo Pinto che ha presentato alla stampa il suo Museo per l’Immaginazione Preventiva. Luogo che ha cambiato identità e gestione molteplici volte, passando da galleria comunale a centro di diretta competenza della sovrintendenza capitolina, il MACRO ha fatto parlare di sé più per la sua mancanza di una specifica connotazione identitaria che per le iniziative promosse.
Prendendo in prestito il proprio nome dall’Ufficio per l’immaginazione preventiva fondato nel 1973 da Carlo Maurizio Benveduti, Tullio Catalano, Franco Falasca e Giancarlo Croce con l’obiettivo sistematico, in un’ottica militante e all’interno di una dimensione pubblica, di dar vita a una congerie di iniziative radicate nel contesto e finalizzate a rivoluzionare la società, il progetto di Lo Pinto ora riparte da un assunto fondamentale, ossia dalla messa in discussione dell’idea odierna di museo e del museo come istituzione. È in tal modo che il nuovo direttore artistico intende ripensare il museo in una forma immaginifica, riportando le idee al centro della speculazione e dell’azione.
Il tentativo è quello di riflettere sul museo come istituzione e luogo di processi culturali e di mediazione inevitabilmente destinati a mostrarsi come diametralmente lontani dalle ormai antiche incombenze del museo come contenitore di opere. Da questo punto di vista, il progetto triennale accoglie senza dubbio una sfida complessa e, al contempo, una effettiva spinta al cambiamento sotto l’egida di una visione espansa, aprendo l’istituzione a una allure decisamente più internazionale e cercando di allontanare il più possibile la pratica del museo da un incancrenito tentativo di ritornare su schemi consolidati e ormai desueti.
Se di sfida si tratta, Lo Pinto chiarisce subito le due motivazioni principali che lo hanno spinto ad accettare l’incarico: da un lato, la libertà di poter articolare un progetto che guarda al museo e lo ripensa in forma sperimentale; dall’altro, la possibilità di farlo in un museo gratuito, qualcosa di unico in Italia. La programmazione sarà scandita da una serie di format votati a una pratica multidisciplinare e legati alla multi-focalità delle pratiche discorsive del contemporaneo. L’idea è quella di creare un dispositivo che evolva in maniera organica, cercando di ripensare i protocolli canonici di un museo. È così che il museo intende attivarsi come luogo di fruizione cangiante ed eterogenea, sottendendo una chiara ripresa delle attività dell’istituzione secondo una prospettiva inclusiva che fa leva sulla gratuità dell’ingresso e dunque sulla possibilità di attirare nuovamente un pubblico eterogeneo, magari giovane, che possa contare su un’offerta culturale variegata che fa della trasversalità il proprio tema cruciale.
Nelle parole di Lo Pinto quello che verrà ad essere definito sarà “un museo che non sia un contenitore di mostre e che si fa esso stesso mostra, intesa come forma e luogo di produzione costante, che riduce la distanza con i visitatori, aprendosi anche a mondi solitamente meno esplorati quali il design, l’editoria e la musica sperimentale”. È attraverso una lettura dal basso che viene dunque favorito un ripensamento del paradigma non soltanto di museo, ma anche di mostra e di opera. Da luogo di sacralizzazione e di asettica contemplazione, il museo potrebbe dunque divenire uno spazio fluido, e realmente permeabile.
“Ho immaginato il museo come se fosse un magazine tridimensionale”, prosegue Lo Pinto, raccontando di uno spazio che “risponda allo spirito del tempo”. Da questa riflessione nasce l’attenta strutturazione delle sale e dei luoghi di passaggio, degli interstizi e dei luoghi abitualmente non deputati alla fruizione; gli spazi dove un tempo sorgeva l’antica fabbrica di Birra Peroni accoglieranno diversi formati: MONO, una serie di monografiche interdisciplinari, che guarderanno anche ad alcune figure irregolari del passato ritenute importanti per il presente; MEDIUM con sezioni dedicate all’esplorazione di un certo tipo di linguaggi presenti soltanto in forma sporadica nei musei, ovvero la musica sperimentale, l’editoria, sentita come spazio alternativo per la circolazione di idee, il design e la grafica. Il corpo centrale del museo, con le architetture progettate da Odile Decq, accoglierà invece RETROFUTURO “uno speciale display che ripensa la collezione attuale e funge da palinsesto dove esporre le opere di una collezione in fieri dedicata alle nuove generazioni”. Lo Pinto propone, in questo caso, una sorta di mnemosyne di warburghiana memoria incaricando Giovanna Silva di fotografare le opere della collezione e i depositi chiusi al pubblico, attivando una meta-collezione e “riflettendo sullo status dell’opera in un’epoca in cui questa è sempre più mediata dalle immagini”.
Il progetto, dopo una serie di lavori di adeguamento e rinnovamento delle strutture e una nuova identità visiva affidata a Marco Campardo, inaugurerà il 24 aprile 2020 e, negli intenti del nuovo direttore, darà l’avvio a unico piano espositivo destinato a evolvere sino al 2022. Le premesse sono più che promettenti, e le parole di Lo Pinto lasciano ben sperare: “senza ignorare le origini e lo sviluppo dell’istituzione museale, credo sia necessario tentare di svincolarsi da modelli che risultano anacronistici rispetto alla complessità e porosità del linguaggio artistico contemporaneo. In un momento storico in cui il concetto di museo e la sua identità sono messi in continua discussione dai mutamenti sociali ed economici nonché dai linguaggi dell’arte stessa, è essenziale sperimentare modelli alternativi dove l’immaginazione possa essere il motore principale”.