Si è aperto nella sede romana della galleria Monitor il capitolo conclusivo di un intelligente format lanciato a partire dallo scorso dicembre, Il tempo regola l’atto: due opere per una mostra (Atto I Thomas Braida, Elisa Montessori; Atto II Benedikt Hipp, Claudio Verna), che ha proposto, in tre diverse occasioni, un confronto polifonico tra due artisti, intessendo un dialogo fatto di consonanze, contrasti, digressioni, tra due sole opere. In un momento storico in cui per lungo tempo la fruizione di mostre è stata sostituita, e spesso demandata per intero, all’universo online – che seppur necessario all’uomo tecnocratico, ha tolto molto del piacere osservativo a un pubblico più ampio – con Il tempo regola l’atto Monitor stabilisce, assertivamente, la necessità di un ritorno primigenio al contatto con l’opera, e gli artisti.
Il terzo atto ospita Matteo Fato e Laurent Montaron, due artisti distanti tra loro per una certa declinazione del mezzo – per entrambi molto specifica – ma dialoganti per quel che concerne un modo assolutamente peculiare di guardare all’immagine e di restituircela.
In Ecce (2018), video girato in super 16mm, Montaron filma in presa diretta le attività che si svolgono all’interno della vetreria di Saint-Just in Francia, una delle ultime fabbriche di produzione a impiegare la tecnica tradizionale del vetro soffiato. Montaron indugia sui dettagli degli interni, sui movimenti sapienti e ripetuti degli artigiani-operai, concentrando le riprese su un andamento ravvicinato che fa della soggettiva uno strumento attraverso cui entrare completamente all’interno di ciò che si sta osservando. Mescolando con coerenze e fascinazione immagini nitide riferite ai macchinari e al loro funzionamento con le riprese ravvicinate dei lavoratori di Saint-Just, Montaron rinnova il legame antico tra uomo e macchina prendendo coscienza dei meccanismi insiti nello scarto tra innovazione e tradizione, e seguendo gli operai al lavoro ne ripercorre le movenze quasi ritualistiche attraverso cui prende forma un atto creativo che compiutamente si svolge davanti allo sguardo. L’artista consente così al nostro occhio di indugiare sulle immagini e di divenire un’estensione – interiore ed esteriore, ad un tempo – della sua personale percezione, legata agli spazi e ai loro tempi.
L’occhio appunto, e l’orecchio, il grande McGuffin che informa di sé l’opera inedita di Matteo Fato ritrovare un sentito dire in una Vita di Velluto Golosa (sognare di dipingere per ricordare i sogni) 2011/2021, ovvero un’installazione articolata in più parti e composta di un dipinto, un disegno, uno straccio per la pulitura dei pennelli intelaiato. Fato consegna a questo ensemble, nato da un processo di lunga sedimentazione, un’evidenza pittorica e scultorea – conferita non soltanto dal supporto e dalla cornice, parti integranti di ciascun lavoro, ma anche dalla perfetta armonizzazione tra le parti.
Se da un lato Lynch e Van Gogh sono i numi tutelari di questo insieme, dall’altro la strutturazione dell’immagine attraverso una forma di temporalità dilatata e non necessariamente lineare è ciò che fa da guida. All’installazione fa da perfetto contrappunto testuale un affascinante scritto di Gianni Garrera, che con l’artista ha più volte collaborato in un dialogo costruttivo in cui l’arte viene informata dalla filosofia: “Un orecchio dipinto è il ritratto dell’orecchio dell’intelletto impassibile, è collegato a un intelletto separato, per questo il suo ascolto è così impossibile, perché non sente in modo normale, in quanto il sentire, come il vedere, è corruzione per l’intelletto. […] Un orecchio dipinto non è un orecchio sordo, ma un orecchio che sente senza decomporsi”.
Il tempo, con le sue convergenze e le sue ineliminabili contraddizioni, scandisce questo terzo atto ricreando una tensione di rimandi che, pur nella assoluta omogeneità formale e concettuale propria a ciascuno dei due artisti chiamati a partecipare, rinnova compiutamente quel genius loci insito nell’opera d’arte.