Camminare lentamente tra le teche, sollevarsi sulle punte, sbilanciarsi, sostare incerti, avvicinarsi ammirati, procedere a carponi per scoprire con gli occhi, per “slegare” lo sguardo e rimanere storditi dalle rarità inattese di un mondo oltremodo prezioso. L’esposizione Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori curata da Wes Anderson e Juman Malouf alla Fondazione Prada di Largo Isarco è un elogio alla lentezza e al tempo da prendersi per conoscere, con un piacere che è di per sé una forma di privilegio, data la frenesia del nostro tempo, fuori dagli schemi museologici consolidati. Secondo volume di una mostra nata al Kunsthistorisches Museum di Vienna – qui implementata da una sezione progettata per Fondazione Prada e ispirata alla tradizione del giardino all’italiana – l’esposizione si riconnette alla secolare tradizione mitteleuropea e italiana delle Wunderkammer, ovvero quelle collezioni orchestrate da eruditi, scienziati e principi con mirabilia, stranezze della natura, esemplari tassidermici, gemme, minerali, dipinti, sculturine provenienti da mondi lontani, reperti etnoantropologici, strumenti scientifici e altri capolavori. Il Museo Settala di Milano, ora tristemente smembrato, e la collezione dell’Imperatore Rodolfo II costituiscono illustri testimonianze del fervore enciclopedico e dell’attrazione fatale verso un concetto eterodosso di bellezza e non solo.
A partire da tali considerazioni, il dispositivo attivato in Fondazione Prada pare svilupparsi su più livelli. In primis esso si esplica in una riflessione sulle logiche museologiche e museografiche vigenti. Non è un fatto nuovo che la Fondazione affidi la curatela dei progetti espositivi ad artisti e a curatori/conservatori museali in una cooperazione che, da un lato favorisce la lettura evidentemente autoriale del percorso espositivo – presupposto implicito, almeno teoricamente, alle grandi iniziative artistiche – e dall’altro “sfida” approcci più propriamente istituzionali.
Così, l’attenzione lenticolare riservata da Anderson, Malouf e Itai Margula di Margula Architects alla creazione dei display espositivi – l’apparato del capitolo viennese del progetto è stato “duchampianamente” trasportato a Milano, alla stregua di un ready made – genera un silenzioso dedalo di sale e passaggi, in cui si ha l’impressione di essere precipitati lontani dal tempo storico, in un spazio avvolgente e dilatato – le 537 opere ospitate, provenienti dalle collezioni del Kunsthistorisches Museum e dal Naturhistorisches Museum di Vienna, coprono un lasso temporale che dal 3000 a.C giunge sino al 2018 – in cui accadono epifanie. In secondo luogo, e sempre in accordo con i principi ordinatori delle Wunderkammer, il peregrinare di sala in sala non è regolato né da un proposito didattico né da un intento storiografico. Certamente l’intera operazione si regge sull’ordine categorico/estetico secondo cui le opere sono esposte – gruppo dei ritratti irsuti, serie degli strumenti di misurazione del tempo, ad esempio – senza che però vengano immediatamente rese note le coordinate storiche utili al visitatore al fine di orientarsi. In altri termini, le regole del gioco potrebbero essere così descritte: scivola in questo universo fuori dal tempo e goditi il piacere implicito alle cose del mondo e all’atto stesso del collezionare. Successivamente, se lo vorrai, con l’ausilio della guida di sala, scorri con le dita, rintraccia e approfondisci quanto stai scoprendo con gli occhi. Didascalie ed eventuali cartelli esplicativi sono banditi.
La sensazione di essere ospitati in una collezione “familiare”, frutto di uno studio meticoloso delle opere dei musei viennesi – di cui molte conservate nei depositi degli stessi – è diffusa. Ciò che più di tutto pare distinguere questa iniziativa artistica da altre coeve è il tentativo di rimeditare, dall’interno e in maniera sottile, il destino “musealizzato“ dell’opera d’arte. O meglio, esso pare provocare un vero e proprio cortocircuito contenutistico.
Sublimando l’atto stesso della selezione e dell’esposizione di oggetti d’arte a discapito di ulteriori approfondimenti critici, il progetto curatoriale da un lato avvia un inevitabile (e secondario) processo di estetizzazione dei soggetti – fenomeno dal quale metteva in guardia già Boris Groys definendolo “una forma di morte ben più radicale dell’iconoclastia tradizionale” – ma dall’altro riconduce quelle stesse opere ad una storia di persone, di scambi e di trasmissione nei secoli e nello spazio distante da ricostruzioni storiche e stilistiche.
Se la perdita di funzione e di contesto, come drammaticamente profetizzato da Mark Fisher, coincide con la conditio sine qua non attraverso cui un’opera raggiunge lo statuto propriamente iconico, è l’assenza dello sguardo e la perdita dell’osservatore a decretarne la dismissione. La Wunderkammer di Anderson e Malouf, organizzandosi come una fantasmagoria di sguardi e una macchina di occhi – i ritratti paiono seguirci quando percorriamo gli spazi, mentre un paio di occhi dall’antico Egitto ci fissa deliberatamente – scongiura definitivamente il pericolo di un reificazione obsoleta delle collezioni.