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Il linguaggio delle immagini | Castello Campori, Soliera

Gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, in Italia come altrove, la fase di più consapevole maturazione formale delle possibilità espressive del mezzo fotografico, a seguito delle sperimentazioni protagoniste del decennio precedente, che si erano invece concentrate sull’esplorazione delle peculiarità connotanti tale linguaggio e sui suoi risvolti concettuali. Le molteplici direttrici di ricerca intraprese dalla […]

Olivo Barbieri, Shenzen, China, 1998, dalla serie Ersazt Lights, Stampa a getto d’inchiostro su carta Hahnemuhle, 47,5 x 62,5 cm | © Olivo Barbieri, Courtesy Fototeca Panizzi, Reggio Emilia
Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi

Gli anni Ottanta e Novanta hanno rappresentato, in Italia come altrove, la fase di più consapevole maturazione formale delle possibilità espressive del mezzo fotografico, a seguito delle sperimentazioni protagoniste del decennio precedente, che si erano invece concentrate sull’esplorazione delle peculiarità connotanti tale linguaggio e sui suoi risvolti concettuali. Le molteplici direttrici di ricerca intraprese dalla fotografia italiana in quei due decenni sono al centro della mostra Il linguaggio delle immagini, allestita dalla curatrice Marcella Manni nelle sale del Castello Campori di Soliera (MO) fino al 7 gennaio 2024. In mostra oltre 60 immagini di 29 artisti e artiste italiani, in prestito dal Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, dalla Fototeca della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e da importanti collezioni private. Il volume edito da Metronom Books che accompagna la mostra raccoglie, oltre alle riproduzioni delle fotografie esposte, anche una serie di interviste a fotografi, curatori e collezionisti che riferiscono esperienze personali e parlano dei progetti espositivi più significativi, delle dinamiche di mercato, delle diverse sensibilità individuali che in quei decenni guidarono la selezione dei lavori da collezionare. L’allestimento segue non un criterio storico-cronologico bensì accostamenti tematici e formali tra le ricerche di autori di generazioni diverse, fissando così un’istantanea dello stato dell’arte di vent’anni di sperimentazione fotografica, che offre anche spiragli e prospettive sull’evoluzione repentina di questo linguaggio nei decenni successivi, in tandem con il progresso tecnologico. Nelle varie sale sono disseminati strategicamente degli scatti di Luigi Ghirri, che assumono il ruolo di pivot di rimandi e parallelismi, così da rendere esplicito quanto i protagonisti di quella stagione creativa dovettero misurarsi con l’eredità del fotografo emiliano, a seguito della sua morte sopravvenuta nel 1992. Uno dei Leitmotiv della mostra è del resto proprio la documentazione del paesaggio, tema principe della fotografia italiana degli anni Ottanta e Novanta – si ricordi il fondamentale fotolibro Viaggio in Italia (1984), curato da Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati e divenuto da subito un vero e proprio manifesto della nuova fotografia di paesaggio italiana.

Gabriele Basilico, Cassano d’Adda. Diga, 1987, 40 x 50 cm, Gelatina bromuro d’argento carta | © Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico – Città metropolitana di Milano / Museo di Fotografia Contemporanea, Milano-Cinisello Balsamo
Opere di Vittorio Fossati, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi

A Soliera si incontrano scatti di Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Guido Guidi e Vittore Fossati relativi ad una commissione decennale avviata pochi anni dopo, la campagna di documentazione della provincia di Milano che prese il nome di Archivio dello Spazio (1987-1997). Le terse scale di grigi di Basilico contrappuntano la rigidità della facciata della centrale idroelettrica di Cassano d’Adda al flusso sfocato dell’acqua che scorre sotto la diga, mentre Castella si dedica alle linee ortogonali che costituiscono il telaio della finestra di un grattacielo milanese, oppure alle travature metalliche di una fabbrica in zona Bovisa, e in entrambi i casi gli edifici retrostanti svaporano in cieli lattimi. Guidi dà spazio a scorci in tono minore della città meneghina, come un angolo sporco e abbandonato di una via del centro o l’esterno polveroso di un’azienda di periferia; Fossati invece abbraccia il monumento ai caduti di tutte le guerre di Ponte Lambro, un luogo di raccoglimento dimesso che si staglia contro un edificio in rovina. Il territorio è scansionato in tanti ritratti minuti, pervasi della poetica delle cose minime. Un aspetto che vale anche per Franco Vaccari, che nella serie Modena vista a livello di cane (1969) si immedesima in un animale che vaga per la città e orienta l’obiettivo verso il piano stradale sconnesso, le saracinesche, un (altro) cane fuori fuoco, un guanto abbandonato sulla ghiaia sotto uno scampolo di manifesto elettorale derubricato ad accidente visivo. Dall’altra parte del mondo, Olivo Barbieri fissa istantanee della metamorfosi in atto delle metropoli cinesi negli anni Novanta, fermi immagine di esplorazioni notturne in paesaggi urbani de-umanizzati dalla luce più crudamente artificiale dei nuovi grattacieli, sbocciati dai palazzi popolari. Le fotografie in mostra sono tratte dalla prima fase della serie ERSATZ LIGHTS case study #1 east west (1982-2014), una caccia continua a cieli notturni saturati dalla luce artificiale proveniente dalle insegne e dalle finestre dei palazzi, tra l’est e l’ovest del mondo. La lunga esposizione dipinge sull’obiettivo le scie dei fanali delle automobili; le cromie dei bagliori virano verso i rossi e i verdi più ostili. Anche i Luoghi del mutamento (in mostra scatti del 1988 e del 1991) indagati da Andrea Abati, edifici in rovina di una Prato post-apocalittica, si sciolgono sotto l’effetto delle luci acide dei lampioni. Le sei fotografie tratte dalla serie Il limite (1990) di Marina Ballo Charmet, scattate ai pali del recinto di un appezzamento di terreno durante una passeggiata campestre, sfumano in un bianco e nero poco contrastato un confine simbolico posto a frammezzare un luogo anonimo in due metà del tutto consimili. Nel Dittico (1997) di Paola De Pietri è in un ambiente altrettanto desolato che ha luogo l’incedere della fotografa, il cui movimento – atto performativo di ricerca interiore – è spezzato in due fotogrammi consequenziali. In uno scatto dal progetto Chi c’è c’è (2000), Marzia Migliora attinge un barlume bluastro d’immagine dal cortile in cui ha passato la propria infanzia; l’osservatore vi sprofonda, seguendo i fili delle proprie memorie.

Olivo Barbieri, opere dalla serie Ersatz Lights, 1992-98, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi
Marina Ballo Charmet, opere dalla serie Il limite, 1990, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi

In un’altra sala si raccoglie un mosaico di fotografie in cui l’obiettivo magnifica oggetti banali in frammenti rubati di contesti (non solo) domestici, dall’angolo di una sala elegante in Palazzo Poggio Torselli a San Casciano in Val di Pesa (1989) ritagliato da Luigi Ghirri, all’interno spoglio e surreale – perché dichiaratamente post-nucleare – costruito da Occhiomagico, in cui una modella nuda si distende su di un calco bronzeo di se stessa (1981). Una tazzina di caffè perfettamente al centro del ritaglio quadrato di una tovaglia rossa (Carlo Benvenuto, Senza titolo, 1998), una tubatura di un albergo di Parigi trasfigurata dalla stampa in grande formato in un’astrazione informale (Alessandra Tesi, Rosso HE1, 1996), un confessionale vuoto e sormontato dal modellino di un veliero (Giovanni Chiaramonte, Monterosso, 1987), due scarpe con tacchi arrangiate a comporre il profilo di un occhio (Piero Gemelli, The Eye, 1991) compongono enigmi visivi che spingono ad interrogarsi sulle dinamiche da cui scaturiscono, destinate però a rimanere ignote. Altre immagini esposte in mostra riflettono più specificamente sulla natura stessa del medium fotografico, forzano i limiti dei suoi connotati tecnici e ammiccano ad altre forme di espressione visiva. Mario Cresci nella serie D’après di d’après scansiona e stampa gli schizzi a matita con cui lui stesso ha riprodotto, con il suo peculiare stile grafico, le composizioni di icone celebri della storia della fotografia, da August Sander a Diane Arbus. Cristina Omenetto sceglie di utilizzare una toy camera economica per ritrarre Pompei e, di conseguenza, accetta gli inevitabili errori di sviluppo interpretandoli come interpunzioni visive che conferiscono espressività (Pompei #5, 1999). Paolo Gioli adotta invece il supporto della Polaroid per poi decostruirlo e reinventarlo sul piano estetico: sviluppa una tecnica di trasferimento dell’impressione sulla carta o sulla tela ispirandosi al procedimento di rimozione a strappo degli affreschi e con essa riproduce lacerti di corpi che, come nelle testimonianze mutile della scultura classica, ancora brillano di scintille di vita. Il torso di un giovane San Sebastiano, privato degli arti e solcato dalle cicatrici prodotte dal processo di traslazione dell’immagine (Il corpo di Sebastiano, 1993), è accostato in mostra ad un tableau vivant di Luigi Ontani che assume l’identità del santo, ripristinandone così la piena vitalità (San Sebastiano indiano, 1976). Di Ontani sono esposti anche altri due autoritratti in costume, l’uno nelle vesti della Lupa capitolina (Lapsus lupus, 1992), l’altro in quelle di Cleopatra (Cleopatria, 1998).

Marzia Migliora, Chi c’è c’è, 2000, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi
Carlo Benvenuto, Senza titolo, 1998, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi

Il Muro d’icone (1994) di Silvio Wolf, polittico fotografico analogico in sette parti, esprime in sé la maturità raggiunta dalla fotografia italiana negli ultimi decenni del Novecento, alla felice congiunzione tra forma e concetto. Gli elementi trapezoidali che lo costituiscono sono fotografie in tralice di quadri incorniciati, ottenute ricercando il punto di vista adeguato a far sì che il riflesso della luce proveniente da una finestra poco lontana ne cancelli totalmente l’immagine dipinta. Le fotografie sono stampate, sagomate lungo le cornici e smaltate. In questa occasione il lavoro è allestito per la prima volta nella sua disposizione più efficace, cioè su due pareti convergenti verso l’angolo di una stanza, ideale scaturigine della luce effusa in prospettiva. Il baluginio annienta l’immagine dipinta, ma induce anche l’affioramento delle asperità delle superfici pittoriche, delineando orografie. “C’è una doppia dimensione di nascita e di morte simultanea, di presenza e assenza dell’immagine – ha commentato l’artista in sede di presentazione alla stampa – in realtà ciò che vediamo è un’immagine della luce, cioè nient’altro che la trascrizione dell’essenza stessa del fotografico. La fotografia può essere vista come una soglia tra i dati di realtà, tra la presenza e l’assenza, l’apparizione e la scomparsa, la luce e il buio; tra il flusso incessante di informazioni che arrivano dal mondo esterno e ciò che invece noi proiettiamo dall’interno. La fotografia ha l’abilità di creare il piano che unisce e separa questi due flussi, che si materializzano insieme nell’immagine”. Le icone di Silvio Wolf sono frammenti di frammenti di realtà, ma in questo reiterato processo di scavo e ritaglio che coincide in effetti con l’essenza stessa dell’atto fotografico si innescano trasformazioni che generano infinite nuove immagini, prodotte dal movimento relativo dell’osservatore rispetto all’installazione e dai riflessi sulle superfici smaltate delle icone, che, dopo aver eradicato la rappresentazione, accolgono di nuovo il mondo dentro di sé. Questi oggetti-soglia, tutt’oggi così attuali, continuano ad esprimere il bisogno di un ritorno alla fisicità, in tempi di efferata e inarrestabile smaterializzazione dell’immagine.

Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi
Mario Cresci, Contadini, August Sander, Matera 1987 – Bergamo 2006, 120 x 80 cm, Stampa giclée su carta cotone | © Mario Cresci, Courtesy Archivio Mario Cresci, Bergamo; Collezione M. Trevisan, Milano
Cristina Omenetto, Pompei #5, 1999, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi
Silvio Wolf, Muro d’Icone, 1994, Il linguaggio delle immagini, Castello Campori, Soliera, exhibition view | Foto Matteo Luppi