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Helene Appel. On the Cutting Board | P420, Bologna

La pittura di Helene Appel (Karlsruhe, 1976) fissa su tela l’immanenza di oggetti comuni, prelevati dal caos quotidiano. L’operazione di fissaggio agisce in un modo che pare analogo al processo di impressione fotochimica della fotografia, ma l’atto pittorico di Appel...

Helene Appel, On the Cutting Board, 2023, installation view, P420, Bologna | Courtesy P420, Bologna (foto Carlo Favero)

La pittura di Helene Appel (Karlsruhe, 1976) fissa su tela l’immanenza di oggetti comuni, prelevati dal caos quotidiano. L’operazione di fissaggio agisce in un modo che pare analogo al processo di impressione fotochimica della fotografia, ma l’atto pittorico di Appel – di per sé certamente più artificioso dello scatto subitaneo di una reflex – coglie e traduce più a fondo le istantanee del reale, palesandosi come un atto di devozione per la materia delle cose. La seconda mostra personale dell’artista presso la galleria P420 di Bologna, On the Cutting Board (fino al 30 aprile), prende il titolo (“sul tagliere”) da una delle opere esposte, peraltro di piccole dimensioni e in posizione defilata rispetto alle altre: Cutting Board (Chopped Fennel) (2023), la raffigurazione minuziosa di un bulbo di finocchio tritato, realizzata su una tela lasciata allo stato grezzo. Si potrebbe pensare che una tale dedizione tecnica sia funzionale ad una qualche volontà di significazione allegorica, ma così non è: coerentemente con un secolo e mezzo di riflessione sul tema del realismo pittorico, nelle sue opere Helene Appel non fa altro che mostrare la realtà in se stessa, senza attribuirle alcun significato recondito. La descrizione fotorealistica del dato naturale acquisisce una potenza illusiva ancora maggiore grazie alla scelta di riprodurre gli oggetti in scala reale e di assoggettare la dimensione del supporto a tale esigenza rappresentativa.

Helene Appel, Branch, 2022, acquerello e olio su lino, cm. 184 x 125 | Courtesy l’artista e P420, Bologna (foto Carlo Favero)

È il caso, ad esempio, di Branch (2022), in cui il ramo secco di un albero è ritratto stenograficamente sulla tela nuda, come se si trattasse della tavola di un trattato di botanica fuori formato. Un altro fattore che dà forza alla causa realista dell’artista tedesca è la scelta di piegare la propria tecnica alle necessità della riproduzione, rinunciando emblematicamente al tradizionale privilegio del pittore di coniare un proprio ductus autoriale, al quale asservire la rappresentazione. Così, per immortalare una tenda rossa, Appel stende colori ad acquerello su una juta grezza, che trasferisce all’immagine le sue caratteristiche materiche (Loose Red Fabric, 2023). Ma quando lo scopo è rendere in pittura le scabrosità superficiali delle mattonelle che compongono una porzione di pavimento, la pittrice opta per un supporto di cotone, su cui passa la matita a frottage (Pavement, 2021). Come scrive Gabrielle Schwarz nel testo critico prodotto per la mostra, “per i realisti dell’Ottocento questa dedizione alla banalità della materia – il rifiuto di elevarla o comunque trasformarla – era una sfida radicale alle convenzioni idealizzanti dell’arte accademica. Oggi, in un sistema in cui all’arte si richiede sistematicamente di giustificare la propria esistenza, spiegare i suoi significati o assolvere i suoi compiti sociali e politici, l’ostinato realismo di Appel non è meno eterodosso.”

Helene Appel, On the Cutting Board, 2023, installation view, P420, Bologna | Courtesy P420, Bologna (foto Carlo Favero)

E si capisce che l’atto è ancora più radicale quando la pittrice decide di dedicare tempo alla riproduzione minuziosa e accorata di quanto di più infimo può offrire il suo panorama visivo: in Untitled (2017-2022), viti, spille da balia, cartacce e altre minuzie dimenticabili (come una galassia di pulviscoli stellari disseminati sul vasto supporto in lino grezzo); oppure il suolo, che sia una distesa di ciottoli (Earth, Pebble Stones, 2022) o altrimenti un riquadro arbitrario di spiaggia costellato di impronte (Sandbox, 2023); come se l’obiettivo pittorico di un paesaggista si fosse rovesciato verso il basso. Riemergono nella pittura tutte quelle raffinatezze di contrasti di texture e di colore che connaturano ogni scorcio del quotidiano, ma che i nostri occhi sono spesso ormai disabituati a notare: in Sandbox le ombre morbide negli incavi delle orme sulla sabbia; oppure, in Pavement, la dicotomia tra le linee rette delle fughe tra una mattonella e l’altra e il caos segnico prodotto dalla matita sfregata sul supporto, nelle grandi campiture a frottage che danno corpo a ciascuna losanga. In Car light (2023), la plissettatura del fanale di un’auto si increspa di riflessi, in un gioco di pattern geometrici che addensa le trasparenze cangianti grazie alla conversione alchemica dal vetro ai colori ad olio. In Towel (2021) le pieghe di una tovaglietta non perfettamente stesa suscitano il desiderio di spianarne la superficie allo scopo di farla combaciare perfettamente al piano su cui poggia, anch’esso in effetti della stessa sostanza, trattandosi di una porzione di juta delle esatte dimensioni della tovaglietta: un tessuto reale che dai bordi scoperti affiora sotto al tessuto fittizio, di cui la pittura ha fissato per sempre uno di infiniti stati immanenti. Sull’ultima parete della sala è appesa, laconica, una busta dipinta (Envelope, 2023): contenuto, involucro e supporto vengono a fondersi e a coincidere.

Helene Appel, On the Cutting Board, 2023, installation view, P420, Bologna | Courtesy P420, Bologna (foto Carlo Favero)
Helene Appel, Sandbox, 2023, acrilico su lino, cm. 230 x 190 | Courtesy l’artista e P420, Bologna (foto Carlo Favero)
Helene Appel, Loose Red Fabric, 2023, acquerello su juta_watercolour on hessian, cm.291,5×245