Testo di Bianca D’Ippolito —
Per la prima volta nella sua sede parigina, la galleria Mendes Wood DM presenta una mostra personale dell’artista svizzera Heidi Bucher (1926-1993). Attiva negli anni ’70 tra gli Stati Uniti e la Svizzera, l’artista è caduta nell’oblio fino alla recente riscoperta, grazie alla grande retrospettiva della Haus der Kunst di Monaco nel 2021.
Il titolo della mostra, La rose de Paris, è mutuato da una delle prime opere dell’artista esposta all’ingresso della galleria. Si tratta di un piccolo gouache colorato su cartone con frammenti di madreperla, un materiale che per il riferimento alla conchiglia come riparo e per il suo aspetto luminoso e variabile da grigio, ocra, marrone a bianco perlato, ritroviamo spesso nelle opere della Bucher.
Sebbene il titolo sia un tentativo di ancorare l’artista al contesto parigino, se ne perde rapidamente traccia di fronte alla forza espressiva delle altre undici opere esposte. Calchi stratificati di consistenza vischiosa, lasciano intravedere facciate, ringhiere, porte, balaustre, finestre e soffitti.
Colpisce per la sua monumentalità Ancestral home (1980-1982): un’opera in lattice lunga più di otto metri che scende sulla doppia altezza della galleria come un lungo nastro, e si svela progressivamente nella salita sulla scala seicentesca. È l’impronta in lattice di un corridoio della villa dei nonni dell’artista, letteralmente staccata e presentata con bordi irregolari e tutte le tracce delle piastrelle ottagonali del pavimento.
Per i suoi interventi, Bucher non sceglie mai a caso. Si reca in luoghi legati alla sua intimità, come “Gentlemen’s Study”, una stanza della residenza di famiglia, riservata esclusivamente agli uomini; oppure in spazi di significato pubblico come un hotel occupato dai nazisti o la clinica psichiatrica Bellevue in cui Sigmund Freud trattò Anna O., la sua prima paziente con presunta isteria.



In questi ambienti, Bucher ricopre le superfici con della garza e del lattice liquido. Una volta che il lattice si solidifica, lo strappa, ed ottiene una membrana sottile che conserva i dettagli dell’architettura su cui era stata posata e i suoi rivestimenti, come per registrare il passaggio di abitanti, ricordi e fantasmi.
Un lavoro fisicamente impegnativo quello di Bucher: applicare e poi staccare questo composto richiede un enorme sforzo, considerando che opera da sola e su architetture a grandezza reale. Questa veridicità è ulteriormente rafforzata dai video che realizza per documentare il processo, quasi a voler testimoniare a sé stessa e agli altri che l’atto è realmente avvenuto.
Dopo anni di oblio e assenza del suo lavoro, questa mostra rende omaggio alla sua ricerca, pienamente meritevoli di stare accanto a molti altri artisti contemporanei a lei affini per sensibilità e ricerca.
Il tema dell’appropriazione dello spazio e degli interventi su architetture preesistenti, lo ritroviamo nelle opere dell’artista britannica Rachel Whiteread, con i suoi calchi in cemento, resina o gesso che solidificano i vuoti di architetture. Oppure nei “Building Cuts” di Gordon Matta Clark che taglia edifici abbandonati rivelandone l’interno e scolpendoli con luce e nuove geometrie.
Ma se Whiteread solidifica il vuoto di spazi domestici generici e Matta-Clark frammenta architetture abbandonate per affrontare questioni di scala urbana, Bucher agisce in spazi personali o di forte valore storico, conferendo un carattere profondamente autobiografico e terapeutico alle sue opere.
Sono impronte intrise di segreti e di memorie tormentate che però si trasformano in qualcosa di nuovo. Questo aspetto ci ricorda la capacità dell’arte di rigenerare e liberare, proprio come riuscì a fare Niki de Saint Phalle tramutando il trauma personale in opere che celebrano la gioia e la rinascita.



