Creare un dialogo tra un testo narrativo ed un’opera d’arte è tendenzialmente facile da un punto di vista critico, e pressoché utile per addolcire certe tematiche o per ritrovare delle traduzioni dell’uno nel linguaggio dell’altro a fini chiarificatori. Confrontare, invece, un insieme di opere letterarie con una rosa di lavori visivi o, ancora, il pensiero di uno scrittore con quello di un artista è impresa non così agevole: per uno stato d’essere e di necessità di entrambi (penso a So much more than the sum of its tropes curata da Gianluigi Ricuperati da Norma Mangione). Il lavoro di chi scrive (e dunque ciò che ne risulta) è guidato da una linearità temporale e logica che indirizza le fila del discorso, ordina i segmenti di pensiero e si infila in certe fessure della nostra mente che agiscono sulla nostra dimensione emotiva in modo diverso rispetto a quanto fanno le opere d’arte. Queste spesso investono, in modo anche involontario, su certi gap nella linea del flusso ordinato e logico dei pensieri, su certi spasmi interni che fanno saltare le sinapsi del fluido sensibile dato dalla scrittura per creare ponti nuovi. La scrittura sa stupire i sensi con il gioco fine e tagliente della disposizione di parole, della definizione di stati, della banalità del quotidiano resa unica e balenante con un dono raro di tessitura verbale. L’arte è più birichina (mi viene in mento il ragazzo di Medardo Rosso), punta sulla scaltrezza con cui aggredisce la percezione, è più vicina alla velocità dell’istinto che a quella della meditazione (tendenzialmente questa giunge, un po’ più lenta, due secondi dopo).
È un po’ per questo che risulta difficile parlare testualmente di emozioni, sensazioni e impressioni senza cadere nella retorica del discorso psicotico o psicologicheggiante. Ma è ancora più complicato parlare con piglio laconico delle cose che ci sovrastano giorno dopo giorno senza mai perdere il loro valore intimo di attizzarci i nervi e fomentarci i pensieri: il cielo, il mare, gli alberi all’orizzonte, le foglie dorate dall’autunno. A volte certe cose basta che siano citate per essere evocative, per imprimerci una forma.
A Torino, il 4 novembre, nel monumentale Salone d’ingresso di Palazzo Madama c’era esposto un indizio di un lungo lavoro che Grazia Toderi sta portando avanti dal 2013 con lo scrittore turco e premio Nobel per la letteratura (2006) Orhan Pamuk. Dopo aver visto il lavoro di lei alla Biennale di Venezia del 2009, Pamuk la invitò a pensare qualcosa per il Museo dell’Innocenza che lui stesso fondò, omonimo ad uno dei suoi romanzi più famosi. Iniziò così una collaborazione “con la totale libertà di andare avanti o interrompere questo confronto, senza darci tempi e spazi precisi e senza necessariamente pensare ad una mostra come punto finale”, mi racconta Grazia Toderi. Il progetto che ne è uscito prende il nome di Words and Stars e consiste nel dialogo tra due personaggi del romanzo di Pamuk: “È un dialogo innocente sul rapporto tra il pensiero, la visione e l’osservazione delle stelle” (GT). Il rapporto tra lui e lei è quasi vicendevolmente esplicativo: come se lei traducesse per immagini le parole di lui, che sono, ciclicamente, la traduzione verbale delle figurazioni di lei. Il risultato è costituito da otto proiezioni video, dove sulle immagini di Grazia, Orhan dispone le sue parole “che via via si trasformavano, finché lui le ha inserite nel video nella posizione e nel momento che voleva. Mi piace che questo testo possa essere letto sia come monologo che come conversazione, è bello poter cambiare il numero delle voci” (GT).
In questa grande sala c’è una teca aperta (uguale a quelle del museo di Palazzo Madama) dove Grazia ha posizionato un piccolo planetario realizzato dall’ebanista torinese Paolo Piffetti (1701-77), in legno con intarsi d’avorio rappresentanti i segni zodiacali. “Mi piace l’idea che lo strumento possa essere ancora montato e smontato; mi piace l’aspetto di attesa, di costruzione, d’ingranaggio, di macchina dell’oggetto, che poi va a rappresentare la dimensione dell’universo” (GT). Lo spettatore è portato a vivere due dimensioni di scoperta del cielo stellato: quella “contenente”, di fonte al planetario piccolo, e quella “contenuta”, sotto la grande cupola del Planetario di Pino Torinese. Qui è stato proiettato un video in cui le luci della città di Istanbul (dove vive Pamuk) creano una costellazione su cui emergono e affondano le frasi dello scrittore.
What does it means to think? / Like an explosion at the beginning of the universe / Stargazing is like getting lost in the sky / Is this why you like looking at the stars? Queste le frasi di Pamuk che sono state incise sulle piccole costellazioni tonde che Grazia ha realizzato e posto vicino al planetario a Palazzo Madama: un esercizio per avvicinarsi a tutto l’infinito che ci sta attorno, che viviamo senza accorgercene. Un esercizio fatto in due. I due tondi prendono spunto dalle luci e dal cielo di Istambul. “Già da tempo lavoro ad Istanbul, che come tante delle mie città è così lontana che a volte non la riconosci più, a volte sembra trasformarsi in qualsiasi altra città. Da anni lavoro sull’idea di trasformazione che avviene nelle città e sul rapporto tra la città e il cielo: tutte le volte penso che la costruzione della città sia nata guardando le stelle. Per me è importante in queste immagini o video innescare sempre il dubbio che quello che si vede in realtà non è il cielo di Istanbul, ma un foglio di carta, una proiezione…per me l’immagine è ancora un grande mistero. Le mie opere d’arte sono qualcos’altro, tendo a non fare video che siano descrittivi di qualcosa: le mie città si dissolvono, a volte diventano cielo, a volte terra… E spesso lavoro anche sulla figura del cerchio: come le orbite dei nostri occhi. ‘Orbite rosse’ è proprio un lavoro dedicato all’orbita oculare, terrestre, satellitare, delle traiettorie nell’universo. Sono tante le cose che interagiscono in questo mio lavoro”. Il discorso del cerchio e della circolarità d’altra parte appare nella fruizione dei lavori della Toderi, laddove i video non hanno né inizio, né fine, ma sono come degli anelli percorribili senza sosta, da diventare anche irriconoscibili, mescolamento di immagini di sfondo e di superficie. Il suo lavoro evoca l’impalpabilità e la pulviscolarità del tempo pittorico piuttosto che la simbologia e la crono-logia del tempo cinematografico.
L’installazione a Palazzo Madama è esposta fino al 16 gennaio 2017; la proiezione al Planetario di Pino Torinese era solo per le giornate del 5 e 6 novembre. Ad aprile 2017 presso il Mart di Rovereto verrà presentato l’intero progetto Words and Stars.