Per dare un senso a qualcosa di oscuro e misterioso come la morte, l’umanità cerca di imprimere tutto il possibile nelle immagini. Di Liberto, come tutti e tutte noi, aspetta e assiste alla fine. Eppure le sue opere non parlano di una morte già avvenuta e non tendono alla catastrofe: sono un momento di cauta osservazione, simbolica e antropologica, sono un comportamento nei confronti della fine della vita (e del mondo). La sacralità è nel rispetto, nel rito, nei simboli evocativi, ma sempre con uno sguardo antropologico, mai drammatico, o quel che basta per coinvolgere chi osserva. Per la prima personale a Milano, Così tentammo di aspettare la fine alla Galleria Poggiali, Giuseppe Di Liberto (Palermo, 1996) presenta una serie di lavori inediti, nati dall’esperienza di residenza a Sète, in Francia, promossa dal Ministero della Cultura italiana in Francia, in collaborazione con Ecole des Beaux-Arts e CRAC (Centre régional d’art contemporain Occitanie/Pyrénées-Méditerranée). L’immaginario dell’artista si pervade di specifici riferimenti storico-artistici. A Sète, l’artista rimane colpito dal Cimitière Marin a cui Paul Valéry dedica una raccolta di poesie, in cui lo definisce: “Sacro frammento terrestre, di ardore / immateriale, offerto allo splendore. / Piace qui il luogo arso di fiamme, forme / d’oro, di pietre, alberi cupi e tanto / marmo che trema su tante ombre”. Come un richiamo simbolico, sull’opera Punto di fuga (2023) Di Liberto applica delle fiammelle realizzate in cera rossa, su una tela raffigurante un ex-voto. La fiamma è un elemento tradizionale del corredo funebre del bacino mediterraneo e reinterpreta i sistemi di segnalazione di emergenza utilizzati dalle imbarcazioni in mare. L’artista trova nel cimitero un particolare elemento decorativo sulle tombe dei marinai, presente solo a Sète: sono come delle boe, curiosamente molto simili alle corone funebri che onorano il defunto, e diventano nella sua opera un elemento ricorrente visibile in Merci N.D. (2024) e Corinne Immortelle (2023).
È impossibile non pensare a La Zattera della Medusa (1818) e all’opera di Théodore Géricault, definita da Jerry Saltz come “una pittura per un mondo in collasso”. Nell’epoca contemporanea si vive lo stesso senso di sconvolgimento che Géricault sentiva per i tre milioni di morti d’Europa durante le guerre napoleoniche. Al Castello di Angers, in Francia, è conservato un gigantesco e antico arazzo commissionato tra il 1373 e il 1377 dal duca Luigi I d’Angiò al mercante Nicolas Bataille. La storia di quest’opera d’arte tessile è un’inception apocalittica: non solo racconta le scene dell’opera di San Giovanni, ma si connette alla moderna Apocalisse che è stata la Rivoluzione francese, durante la quale l’arazzo fu smembrato per ricavarne coperte, stuoie e riparazioni domestiche per il popolo. Un altro riferimento iconografico, strettamente legato alla cultura d’origine di Di Liberto, è Il Trionfo della morte, un affresco del 1446 custodito a Palazzo Abatellis di Palermo. Da questi studi nascono Il suono della seconda tromba (2024) e Il quarto cavaliere (2024). E poi c’è il suono realizzato da Federico Pipia: richiama le trombe che annunciano la fine o gli allarmi marini durante le tempeste, drammatico e distorto presagisce l’orizzonte della fine. Feu Marin (2024) è una serie di incensi stampati in 3D che diffondono un’essenza che ricorda la marcescenza dei fiori nel cimitero, frutto di una ricerca in collaborazione con il naso Alessandra Avanzi. Suono, luci e odori completano la mostra con gli aspetti più interdisciplinari della pratica di Di Liberto. La conclusione avviene con Camera ardente (2024), il calco di una testa in terracotta, e completa la paralisi temporale dell’attesa della fine con l’atto decisivo della morte. Tutto riconduce e termina nel discorso antropologico sulla fragile finitezza umana.
Giuseppe Di Liberto. Così tentammo di aspettare la fine
6 giugno 2024 –13 settembre 2024
Galleria Poggiali – Milano
Foro Buonaparte 52, 20121 Milano