Nel 1980 la casa editrice Einaudi pubblicava per la collana Gli Struzzi la prima edizione di Una pietra sopra. La raccolta, composta da vari testi e saggi autografi di Italo Calvino, rifletteva attorno al tema del linguaggio, dello stile, dello scrivere e relative regole da seguire. Si trattava, volendo sintetizzare, di una sorta di testamento letterario del celebre scrittore, un’autobiografia letterale di un autore che si interrogava sulle tecniche del raccontare.
Parimenti per Giulia Marchi il progetto che porta lo stesso titolo – attualmente visibile negli spazi della Matèria Gallery di Roma – porta alla luce in modo chiaro e strutturato le mille sfaccettature di un’artista che ha abituato il proprio pubblico ai medium più diversi. Al centro di questa nuova serie di lavori, tasselli che compongono la seconda personale dell’artista negli spazi della galleria, è appunto il linguaggio, che l’artista presenta traducendolo in materia, non passando stavolta attraverso il filtro interpretativo della fotografia, ma trovando propria dignità e autenticità nella natura stessa della propria essenza intrinseca.
Se, afferma il critico Andrea Cortellessa che accompagna la mostra con un proprio testo, <<l’anagrafe, pigra, si affretta a rubricare [Giulia Marchi] come “artista visiva”. Più cauto sarebbe limitarsi ad annotare le materie che di volta in volta delibera di impiegare (davvero c’è un destino nei nomi, se Matèria si chiama la galleria che la ospita): nastri per calcolatrici, superfici fonoassorbenti, marmi di Carrara, specchi, saponi e crini di cavallo. Ma non c’è dubbio che la sua materia prediletta sia la carta>>. Sfaccettate sono le superfici che l’artista sceglie di sottoporre al proprio passaggio, al proprio segno, conservando in ogni caso questo estremo attaccamento alla parola, che resta aggrappata nelle forme e nella materia stessa che compone le sue opere.
Dal marmo di Carrara alla lana, dall’acciaio all’onice, senza tralasciare mai la carta, quella carta che è anzitutto il foglio su cui disegnare le idee che comporranno un progetto e, al tempo stesso, medium su cui scrivere, cancellare, catturare, tenere un segreto.
È il caso di È tutto nella testa (2022) una moderna torre di Babele fatta di risme di carta pressate nella morsa di una struttura in ferro, in cui restano imprigionate o custodite tante parole, come anche tanti fogli che non parlano nessuna lingua, muti.
Parole che possono essere dolci o estremamente pungenti ed evocative, come quelle che costruiscono i titoli di tutte le installazioni, che prendono spunto dalle tracce di grandi autori del mondo della poesia, della letteratura, della scultura, delle arti visive – Tu vedi un blocco, pensa all’immagine o Ci sono ferite che per cicatrizzarsi hanno bisogno di altre ferite come affermava Michelangelo Buonarroti o Lo spazio è la deposizione del tempo preso in prestito a Vincenzo Agnetti. Forme che si muovono nello spazio della galleria, leggere e flessuose, ma anche estremamente potenti, come la forza estremamente presente de Il mondo addirittura è la figura dell0impossibile e l’impossibile non è il vuoto, per la quale Giulia Marchi associa una sfera in marmo bianco di Carrara con una grande parentesi in acciaio corten.
Come afferma ancora Andrea Cortellessa, i lavori di Giulia Marchi richiamano alla mente le parole di Roland Barthes, quando affermava che “l’effettiva ‘vocazione’ della scrittura sarebbe anzitutto ‘la crittografia’”. Dunque, messaggi che non vengono resi leggibili a chi prova ad interpretarli, o perlomeno non subito.
Quella chiave di lettura per ciò che non è apparentemente comprensibile è tutta nella testa, prolifica e curiosa, dell’artista: restano le sue tracce, piccole bottiglie piene di messaggi pronti ad essere raggiunti.
Fino al 7 maggio 2022, Matèria, Via dei Latini, 27 – Roma