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Nella società della spettacolarizzazione, dell’esibizionismo estremo e dell’ipervisibilità l’unica strategia di resistenza possibile sembra essere la sottrazione. È questa la via scelta e percorsa con coerenza da Giovanni Morbin, che si traduce nella riduzione ai minimi termini dell’oggetto e nella rinuncia alla spettacolarità delle azioni, inscritte in una trama esperienziale di relazioni funzionale alla conoscenza del reale e del sé.
La privazione – nel senso appunto di riduzione – è la tensione costantemente presente che ispira l’indagine dell’artista sulla realtà considerata nei suoi aspetti materiali, sociali e antropologici. L’uomo, la relazione con se stessi e con l’altro e i rapporti di potere – nella società e all’interno del sistema dell’arte – sono temi centrali tradotti in opere che assumono il valore di strumenti e rimandano ad azioni ibride che spesso diventano denunce – come nei casi eclatanti dell’asta di metallo intitolata Forza Nuova del 2008 o della Fioriera a forma di svastica del 2010 – che hanno dato origine a numerose polemiche – o, in questa mostra, di Peroratore 1 (2017), che sottolinea il pericolo delle striscianti derive autoritarie e populiste attuali. L’installazione comprende una bacheca con esposti documenti testuali e fotografici sull’esibizionismo del potere e una pedana lignea che è anche l’occasione per ripensare la scultura, la cui unica possibilità di invenzione formale oggi – secondo Morbin – si concentra unicamente sul piedistallo, che qui è vuoto, in attesa di un oratore (un chiaro omaggio a La Base del mondo di Piero Manzoni). L’opera quindi concentra senso e sapere in una forma di espressività minima che riformula la natura e la funzione dell’oggetto trasformato in strumento di destabilizzazione, che si offre e si nega allo stesso tempo, mettendo continuamente in causa anche il proprio statuto e quello del sistema dell’arte. Ne è un esempio Atrophy (2017), nient’altro che il basamento di un trofeo che può essere comprato e posseduto solo nominalmente e non esclusivamente, oppure Personale strettamete personale (2014) una serie di buste chiuse contenenti dei segreti che non possono essere aperte pena la distruzione dell’opera. In questi lavori il collezionista è chiamato a partecipare suo malgrado mentre il suo ruolo viene messo in crisi, compromesso o addirittura negato.
Anche Tergicristallino (no show device) (2016-2017) è un agente di privazione: l’installazione ambientale è composta di due strutture mobili che occupano parte della sala espositiva negandone la possibilità d’uso e realizzando con un inesorabile movimento lento, quasi meditativo, il vuoto, la riduzione assoluta che determina una dimensione spaziale e temporale di attesa.
Morbin innesca una dialettica degli opposti che permette la contemporanea presenza di antitetici punti di vista, come nei Ritratti, una serie– di cui in mostra è presente un autoritratto – in cui la riconoscibilità del modello non è data dalla somiglianza ma dalla materia con cui il quadro è realizzato, cioè il sangue: identità totale che permette allo stesso tempo di guardarsi dall’esterno e di essere contemporaneamente in sé e fuori di sé, una condizione paradossale che si realizza anche con Strumento a perdifiato, dispositivo in vetro che collega la bocca all’orecchio enfatizzando il parlare da soli, tra sé e sé, qui presentato insieme alla documentazione di molte operazioni realizzate negli oltre trent’anni di attività.
Morbin lavora sommessamente, sempre mimetizzato nella banalità del quotidiano ma riuscendo a squarciare la superficie dell’ovvietà per mostrare la realtà che non riusciamo più a vedere veramente.
Giovanni Morbin | Privazione
con un testo di Simone Frangi
Prometeogallery di Ida Pisani, Milano
Fino al 4.11.2017