“Il rapporto dell’uomo con lo spazio che lo circonda, il suo relazionare il proprio comportamento allo spazio che si organizza intorno a lui, è una costante che ricorre in tutta la storia dell’arte moderna, dell’arte antica e non solo nella storia dell’arte”. Con queste parole di Gianni Colombo si apre “Gianni Colombo. A Space Odyssey”, straordinaria retrospettiva che Gió Marconi e Fondazione Marconi ospitano a Milano fino al 17 luglio. La mostra è a cura di Marco Scotini ed è sostenuta dall’Archivio Gianni Colombo in occasione dei trent’anni dalla scomparsa dell’artista.
Se fin dagli anni Cinquanta sono l’arte e il cinema a rivalutare e risignificare le coordinate classiche dello spazio del tempo, Colombo va annoverato tra i protagonisti di questa immensa rivoluzione. Ma, come nota Scotini, limitarsi a definirlo come pioniere dell’arte cinetica e programmata, nonché fondatore del Gruppo T, è ulteriormente compilabile: l’artista è soprattutto primo ambasciatore di una inedita percezione sensoriale, anzi corporale, analoga, ad esempio, alla poetica di Lygia Clark. In effetti, la ricerca di Colombo indubbiamente parte da una critica della rigidità dello spazio euclideo ed ortogonale: così si genera un’ampia gamma di invenzioni di rottura della nostra abituale griglia percettiva, di trasformazioni di forze, di equilibri percettivi ma anche di questioni relative a quella conoscenza incorporata che fa del corpo un mezzo indissociabile dalla nostra percezione del mondo e delle cose. Proprio questa significativa drammaturgia spaziale, così vicina a quell’idea di “sapere incorporato” di Donna Haraway, viene raccontata partendo dal colossal fantascientifico di Stanley Kubrick del 1968. E grazie al contributo di Annette Michelson su Artforum del 1969, si definisce per la prima volta quest’idea di disorientamento percettivo per ristabilire uno stato di equilibrio.
Lo spazio di via Tadino accoglie con una straordinaria fotografia di Ugo Mulas, nella quale la complicità tra Colombo e il fotografo ben restituisce la dimensione spaziale, anzi astronautica della poetica dell’artista: egli è ritratto come in una navicella spaziale in esplorazione del cosmo, la cui crew è composta da Maria Mulas, dal fratello Joe e da Vincenzo Agnetti. In questo senso, con un percorso più tematico che cronologico, la mostra vuole raccontare il denso rapporto dell’artista con Studio Marconi. La mostra si apre con una collezione di ceramiche, lingue vive perchè interattive e ruotabili che sensibilmente ricordano l’esperienza di Lucio Fontana, messe in relazione con gli Spazi elastici degli anni Sessanta che per primi inaugurano l’esercizio sull’elasticità a ciclo continuo. Infine gli Spazi curvi, gli ultimi lavori degli anni Novanta. Segue la straordinaria Bariestesia del 1975, nella quale è proprio il nostro equilibrio corporeo ad essere messo alla prova: la scala viene risignificata da luogo di transito a spazio conoscitivo del piano inclinato, sfidando ogni nostra sicurezza percettiva e ogni nostro sapere incorporato. Al piano interrato, un paesaggio di lampade, oggetti illuminotecnici e meccanici a determinare la ricerca di Colombo sulla luce e sugli spazi cinetici, non senza connessioni alle ricerche sul plexiglas del fratello designer Joe. Proprio Colombo 281, meglio conosciuta come Acrilica, è difatti il primo (e unico) progetto condotto a quattro mani dai due fratelli per Oluce nel 1962.
La sala successiva ribadisce questa ricerca luministica con una gigantografia di Campo praticabile del 1970, primo degli ambienti che inaugura la relazione con Studio Marconi. Si tratta di un pavimento che si illumina con il movimento dei visitatori progettato con Vincenzo Agnetti, il cui NEG presente poco prima si pone come calcolatore della navicella spaziale. La serie incredibile di Strutturazioni pulsanti e Superfici in variazione, tutte risalenti al 1959, riporta quanto per Colombo l’arte dovesse porsi come spazio partecipato. “L’aspetto fondamentale di questa ricerca è il fatto che un’opera viva nel tempo: a piacere dello spettatore, è possibile cambiare alcuni elementi, postporli, manipolarli, oppure lasciare che siano dei motori meccanici a restituirci percezioni continuamente diverse”, riporta Scotini. Quadri interattivi di polistirolo o di peluche, animati dallo spettatore o da servomotori, sono come viventi e rivoluzionano in modo indelebile il classico criterio di percezione di un’opera d’arte, anzi ribadiscono il carattere effimero per non dire organico del muro. “Un corpo scala, un classico quadro, una lampada: tutto quello che può sembrare la cosa più normale e domestica con cui quotidianamente ci confrontiamo, in Colombo viene spaesato. È disorientante, proprio perché questi elementi che passano inosservati diventano invece dei dispositivi e dei marchingegni tali da far saltare le nostre sicurezze percettive e le nostre categorie mentali”. Tra suggestioni spazialistiche, ora a Castellani o a Manzoni, ora addirittura a Schifano, la sala si completa con due sontuose Elda chair di Joe.
Se negli anni Sessanta la capacità trasformativa dello spazio di Gianni Colombo riguarda l’elasticità, con gli anni Settanta è la gravità ad essere indagata, mettendo in scena dei disequilibri percettivi e corporei che fanno della dimensione corporale una struttura sempre più decostruttiva del nostro sapere e del nostro essere disciplinati allo spazio quotidiano. È il caso della straordinaria Topoestesia al primo piano, un ambiente antigravitazionale e centrifugorisalente al 1970, due anni seguente all’uscita di 2001. Odissea nello spazio e un anno seguente all’allunaggio di Apollo 11. Sarà protagonista dell’ultima esposizione a Studio Marconi nel 1977: un ambiente costruito al seguito di una torsione e quindi privo di ogni asse ortogonale di riferimento che confonde ogni nostra quotidiana percezione sensoriale. Per il curatore “Uno dei massimi raggiungimenti di Colombo: il fatto di farci capire che ogni nostra azione non è così naturalizzata, non appartiene a un retaggio naturale, ma è assolutamente artificiale, come una lingua che noi che noi apprendiamo e che noi possiamo in parte manipolare. Ma che non è qualcosa che ci appartiene come un dato, che quindi possiamo sempre e in ogni momento trasformare”.
L’imponente retrospettiva si conclude come registrando le intenzioni di ogni singola opera: all’ultimo piano ecco Spazio curvo, l’ultimo lavoro del 1992 che si attiva con una luce fredda e che, attraverso il movimento non rettilineo, definisce a tutti gli effetti uno spazio elastico e fluido, oltre che attraversabile. Scriveva Emilio Tadini: “Tutto ondeggia, oscilla, va fuori dei gangheri, abdica alla sua funzione canonica, devia, si dà all’irregolare, anzi si dà alle altre regole: a regole inaudite, misteriose”.
L’improvvisa scomparsa dell’artista nel 1993 e la saturazione contemporanea di esperienze ambientali o immersive mai silenzieranno la volontà di decostruzione che Colombo elaborò contro ogni spazio ortogonale e conservatore. Insomma, quella navicella spaziale è ancora in viaggio.