Una serata in piazza, una birra con gli amici. Socialità di quartiere, ovunque uguale, da Palermo a Milano. Restare fino all’alba, stappando una birra dopo l’altra o rincasare presto, chiudendosi la porta di casa alle spalle: questione di scelte, quelle apparentemente banali e senza importanza ma che determinano comunque le nostre vite.
Con Enrique, nuovo progetto realizzato in occasione della sua seconda personale da Clima, Gianluca Concialdi si mette in gioco, parla di sé e di noi tutti, della comune esperienza quotidiana in cui dimensione pubblica e privata si incontrano e si sovrappongono. Una mostra concepita come un’unica installazione in cui scultura e pittura si ibridano fino a diventare elementi architettonici e scenografici di una piazza immaginaria e al tempo stesso reale, praticabile.
Gli apribottiglie di metallo sono agganciati a delle catenelle, pronti per l’uso: ognuno riporta incisa una frase, associazioni libere che non aspirano a un senso né a una narrazione; sono modi di dire, citazioni, frammenti di discorsi origliati, un puzzle parolibero che potrebbe potenzialmente ricomporsi indefinitamente in conversazioni nuove o nuovamente ripetute, come sono spesso le chiacchiere informali e rilassate davanti a un bicchiere.
Anche i titoli dei lavori sono come versi sciolti per poesie collettive da ricomporre a piacimento: Porta killer, Sono uscito a portare la spazzatura, In lontananza Gigi d’Alessi, Johnny va rapido e scoordinato. A terra calchi di bottiglie e di un posacenere – con inciso l’autoritratto di Concialdi sul fondo, quasi fosse una firma – e incernierati alle pareti alcuni grandi dipinti di pura astrazione su supporti lignei che non sono altro che porte da aprire e chiudere come quinte teatrali per comporre scenari a piacimento. Aperte o chiuse, ognuna offre una diversa visione: sono metafore di una possibilità, di un cambiamento di direzione, anche se contingente: la scelta tra restare o andare via. La pittura è sempre sperimentale, stratificata con inserimenti materici che conservano la memoria dei passaggi successivi e dei ripensamenti al punto da diventare quasi un residuo performativo che rimanda alle tante azioni fatte dall’artista.
Un racconto empatico, di sensazioni, così come il testo di Pietro Librizziche accompagna la mostra: non un commento critico ma l’evocativo racconto di una vista in studio e di una serata palermitana che diventa quasi una voce fuoricampo.