In tempi di crisi è opportuno riflettere e agire e come scriveva Calvino in Le città invisibili, “Se vuoi sapere quanto buio hai intorno devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane”. Come in un lungo e silenzioso piano sequenza dai toni pittorici e post apocalittici, si sviluppa sul lago di Kuyalnyk in Ucraina la suggestiva installazione ambientale di Gian Maria Tosatti (Roma, 1980), intitolata Il mio cuore è vuoto come uno specchio. Dall’ampia distesa che s’apre visivamente sul Mar Nero, si ergono otto grandi lanterne luminose immerse nelle mobili sabbie dell’estuario, una visione onirica che galvanizza quell’insolito paesaggio cosi ostile, disabitato e allo stesso tempo eterno, poiché in esso risiede il culto del fuoco sacro, ed è in questo spazio vivo che luce e architettura sono elementi tangibili che rendendo questo scorcio naturale l’opera stessa.
Da questa narrazione totale e minimalista prosegue la ricerca di Tosatti che rientra in un’ampia partitura di natura politico e filosofica, incentrata sulla crisi della democrazia e sulla conseguente scomparsa dell’umanità, l’idea è quella di una consapevolezza che ripone nella costruzione di forme geometriche e artificiali, la testimonianza di una civiltà estinta, della quale conosciamo solo un lascito archeologico, mentre il ricordo fisiognomico dell’uomo viene cancellato, così come quel volto fatto di sola sabbia in riva al mare ricordato da Michel Foucault in Le parole e le cose.
L’operazione site-specific, presentata da The Blank Contemporary Art (Bergamo) e Izolyatsia Platform for Cultural Initiatives (Kiev), è a cura di Kateryna Filyuk e Alessandra Troncone con il sostegno dell’Italian Council (7. Edizione, 2019), programma di promozione di arte contemporanea italiana nel mondo della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. In attesa di assistere alla presentazione del nuovo episodio, che in insieme a quello di Odessa fa parte del Dittico del Trauma, abbiamo intervistato Gian Maria Tosatti.
Il 6 gennaio 2021 abbiamo assistito a un vero e proprio tentativo di colpo di stato. L’assalto al Campidoglio di Washington è stato un atto gravissimo, un attentato alla democrazia occidentale perpetrato da americani nei confronti di altri americani, in un clima di vera e propria guerra civile. Il mio cuore è vuoto come uno specchio è un progetto di grande attualità e a tal proposito, qual è la tua riflessione sui fatti di Capitol Hill e in che modo questo presente entra in dialogo con la tua ricerca artistica e più in particolare con l’attuale lavoro?
Sicuramente i fatti di Capitol Hill hanno a che fare con l’idea di crisi della democrazia, che è il tema attorno a cui ruota il mio progetto. Ma le due cose non coincidono. Gli Stati Uniti d’America, dove ho vissuto per dieci anni – e che quindi conosco bene –, già dai tempi della loro Costituzione, hanno deciso di costruire una propria democrazia, parallela. Una democrazia che non nasce dall’evoluzione della storia di Atene, ma dallo scandalo della schiavitù. La loro è una democrazia con un’altra storia. A differenza di molti altri paesi ex coloniali, loro hanno combattuto una guerra di secessione con l’Europa. E quel conflitto ha costituito una separazione non solo economica, ma anche storica. Per questa ragione, il mio progetto, dal cuore del Mediterraneo si estende fino al Capo di Buona Speranza o fino alle ex repubbliche sovietiche, ma non prevede attualmente tappe negli Stati Uniti. La loro è un’altra storia. La loro democrazia è un’altra democrazia. La crisi della loro democrazia – che abbiamo visto in questi giorni – non ha davvero niente, ma assolutamente niente a che vedere con la crisi della democrazia europea. La loro vive una crisi barbarica, una crisi preistorica. La nostra è una crisi apogea, la crisi di chi la stella che ci ha guidato, alla fine della Storia, l’ha raggiunta, l’ha afferrata, ma adesso la sente raffreddarsi e morire tra le sue mani.
Viste le difficoltà del momento e il tuo approccio corale, come sono state le modalità di organizzazione e le fasi successive del processo di realizzazione dell’opera sul lago Kuyalnyk?
Come sempre ho vissuto in Ucraina alcuni mesi per studiare il paese, per capire in che modo quel paese avrebbe potuto tessere la sua vicenda nel grande arazzo che vado preparando. Ho viaggiato a lungo assieme alla mia assistente Valeriya Plehotko. Abbiamo visitato luoghi che la lingua non è capace di raccontare. Tra questi Chernobyl, ma anche, appunto Kuyalnyk, un luogo senza orizzonte, in cui l’acqua bianca del lago si fonde con il bianco del cielo, lasciando la riva sospesa come un bilico a strapiombo sul nulla. Quel luogo parlava già di molte delle cose che il paese aveva bisogno di raccontarci. Così ho lavorato un anno per sintonizzare questa visione attraverso un intervento molto preciso, sottile: inserire in questo quadro la memoria dell’uomo. E così è iniziata l’epopea della realizzazione di un intervento che è stato davvero massacrante perché abbiamo dovuto creare le fondazioni per dei pali alti sei metri in una spiaggia di sabbie mobili, in cui era impossibile portare alcuno strumento meccanico, perché sarebbe affondato. Quindi abbiamo scavato a mano le fondazioni, abbiamo portato sotto la pioggia e la neve, a cinque gradi sotto zero, i blocchi di cemento e i sacchi di sabbia a spalla. Tonnellate di materiali che sarebbero poi diventati invisibili, nascoste sotto il pelo dell’acqua, per poter rendere possibile la visione di questi otto pali e della loro luce nucleare perpetua, che racconta l’avventura incredibile dell’uomo su questo pianeta e sopravvivendogli.
Il tuo lavoro presenta un corpus ampio di intense e poetiche narrazioni ambientali dal valore profetico e riflessivo. Dopo gli interventi realizzati a Catania, Riga e Cape Town, giungi a Odessa con una grande consapevolezza storica ed esperienziale, incentrata sulle drammatiche conseguenze della catastrofe nucleare di Chernobyl. Come arrivi alla formalizzazione dell’opera e quali sono i punti di forza e le criticità che hai analizzato in questo lungo percorso?
In realtà, cerco, in questo progetto di analizzare molto poco. Il progetto “Il mio cuore è vuoto come uno specchio” è basato sull’ascolto. Il mio obiettivo è solo fare dei ritratti. Ognuno diventa la scena di un grande affresco come quelli del Quattrocento o del Cinquecento che abbiamo studiato, fatti di molte sezioni. Ecco, ognuna di queste sezioni è un episodio del mio ciclo. Per realizzarli non devo essere critico, devo essere esatto. Devo osservare fin dentro al fondo di ciò che vedo e ripeterlo con precisione nella cornice di specchio che mi sono dato.
In occasione di Manifesta12 nel 2018 il ciclo di Catania, ambientato a Palazzo Biscari, ha dato origine al prologo del tuo romanzo visivo, oggi con la tappa di Odessa a che punto della narrazione siamo arrivati e quale potrebbe essere l’epilogo conclusivo?
Questo progetto procede lentamente. Ogni anno riesco a realizzare una o due tappe. Sono progetti che impegnano molto tempo. I mesi di studio, quelli di realizzazione… Siamo certamente all’inizio di questo ciclo. La strada è ancora lunghissima. A settembre uscirà il Volume 1 della collana di libri che racconteranno quest’avventura e comprenderà i primi cinque episodi. Dopo Odessa ci sarà, infatti, Istanbul, che inaugurerà a maggio. Ma poi sono già in programma Gerusalemme, San Pietroburgo, Torino e Parigi… Arriveremo per allora al 2024 o 2025, faremo un altro volume del libro e poi proseguiremo altrove. Finché non avremo raccontato tutta la storia che ci riguarda o non avrò ceduto fisicamente allo sforzo.
Abbiamo visto come lentamente la Gran Bretagna si è sfilata dall’Eurozona e in più come l’emergenza virale ha sancito una volta per tutte che, nel vecchio continente i singoli Stati corrono a diverse velocità. In questo caso oltre alle diversità culturali e sociali anche le questioni politiche e sanitarie, indicano quanto il dibattito europeo sia sempre in discussione e lontano dal pensiero visionario e unitario di Altiero Spinelli, espresso nel manifesto di Ventotene del ‘41. Rispetto ai fatti storici e al nostro presente, come declineresti oggi quel valore di identità plurima ed europea che continua a essere privato della sua eredità reale e spirituale?
L’Europa che viviamo è l’Europa della mia generazione. Un’Europa che è nelle gambe dei viaggiatori, nel sentimento di chi non si sente diverso da un amico francese, tedesco, polacco. E’ un’Europa ignorante. Non è l’Europa colta di Spinelli. E’ fatta dagli studenti Erasmus, che di solito parlano male la lingua del paese da cui provengono e pronunciano un inglese funzionale che è una evoluzione dell’esperanto. Però non è nemmeno l’Europa come corporazione bancaria e senza lo straccio di una costituzione, che porta avanti il suo teatro senza spettatori nelle sedi di Strasburgo e di Bruxelles. L’Europa vera è molto più avanzata dell’UE, ma senza leggi che la rappresentino. E’ un corpo che vive in una corazza stretta e soffocante. Forse una Europa politica nascerà sull’altare sacrificale della democrazia che stiamo raccontando.
Una curiosità sul titolo. Il mio cuore è vuoto come uno specchio è il nome generale del progetto, scritto nella lingua del paese in cui viene presentata l’opera. Ho sempre pensato che ci fosse un riferimento con Il mio cuore è un cubo abisso del 2004 di Vettor Pisani. Come stanno le cose?
Vettor è il primo artista che ha iniziato a seguire il mio lavoro quando ero ancora un ragazzo e lavoravo a Roma. Ma no, non è da lui che viene il titolo. E’ una frase pronunciata dal cavaliere Antonius Blok nel film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman.
Quest’anno, pandemia permettendo, è previsto anche il nuovo capitolo pensato a Istanbul, puoi anticipare qualcosa?
Istanbul è una città che in questi ultimi vent’anni è stata distrutta e ricostruita. Dove c’erano quartieri vitali, con vecchie case, famiglie antiche, si sono costruite torri di vetro con uffici o case troppo costose per essere affittate. Le comunità di un luogo simile a Napoli, vecchio di migliaia di anni, sono state disperse, cancellate. Al loro posto s’è edificata una città fantasma, piena di grattacieli vuoti. E molte zone, come Tarlabasi, che somiglia al Rione Sanità di cinquant’anni fa, attendono di essere rase al suolo. C’è già un fossato profondo venti metri attorno alle vecchie case, preparato per le fondazioni del futuro quartiere. A Tarlabasi la gente vive per strada. E’ il vecchio quartiere curdo. Ci sono ragazzini che, come gli scugnizzi del nostro dopoguerra, sono figli di non si sa chi. Vivono come i gatti randagi. Si rifugiano in palazzine mezze crollate. E’ un luogo scandalosamente bello e brulicante come la vita. Ma su di esso pende una scure. Ecco. E’ qui che ho deciso di sedermi per fare il mio ritratto di Istanbul, molto diverso da tutti quelli che fin qui c’è stato dato di vedere.
Come è cambiato il rapporto tra arte e politica nelle nuove generazioni?
Ci sono due risposte a questa domanda. La prima è quella vera. La seconda quella diplomatica. Partiamo da quella vera. Il rapporto tra arte e politica nelle nuove generazioni non esiste. Punto. La risposta diplomatica è che il modo in cui l’arte fa politica in questi anni è in larga parte sciacallaggio di temi, anche importanti, nel modo esatto in cui fin ora lo aveva fatto la moda, ossia mettere una bandiera rossa in mano a una modella per vendere una borsetta.
E’ importante che gli artisti emergenti abbiamo una parte politicamente attiva nel processo di costruzione e divulgazione dell’opera?
Considerando che la critica negli ultimi vent’anni non ha scritto uno straccio di libro di teoria e contestualizzazione, di analisi comparativa del lavoro degli artisti del XXI secolo, direi che la parte attiva degli artisti è l’unica cosa che ci salva dal silenzio.