Fino al 24 novembre 2022, A arte Invernizzi ospita Rodolfo Aricò. L’immagine dissonante, una personale dell’artista meneghino curata da Francesca Pola in collaborazione con Archivio Rodolfo Aricò. Dopo altre esperienze espositive presso la galleria, viene presentato un corpus di opere rappresentativo degli anni Sessanta e Ottanta e proprio in occasione della mostra è stata pubblicata una generosa monografia bilingue ad opera della stessa curatrice.
La mostra intende celebrare i vent’anni dalla scomparsa dei uno dei protagonisti dell’arte italiana del secondo Novecento. Dopo il Liceo artistico di Brera, Aricò si iscrive alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Questo cenno biografico non solo non stupisce, ma anzi conferma un’attitudine comune a tutta l’esperienza produttiva dell’artista, la cui ricerca si dipana nei decenni in modo sempre coerente: l’indagine sulla rappresentazione spaziale. Proprio a partire dagli anni Sessanta, Aricò abbandona l’informale e si concentra sull’azione del dipingere attraverso la geometria, tanto da partecipare alla mostra Nuove prospettive per la pittura italiana presso Palazzo Re Enzo di Bologna, nel 1962. Questo periodo è ben rappresentato dal piano superiore della galleria, dove si espongono una serie di opere dalla geometria mobile, dinamica, quindi intenta ad attivare lo spazio circostante. Curioso infatti come l’analisi pittorica spesso coincida con l’analisi geometrica: l’esito del rapportarsi di forma e colore genera una proiezione illusoria, un elemento di traslazione, un oggetto di slittamento. Quasi una volontà di proporzionare la pittura, per generare una relazione tra composizione e geometria. Quindi, dentro uno spazio architettonico creare uno spazio architettato.
Se la forma presto diviene curva, quindi sagomata, il colore è spesso monocromo o a campiture uniformi, quasi come a voler esprimere l’analisi progettuale di un volume, o l’esploso impossibile di un solido. È il caso delle Assonometrie, delle Strutture orfiche e delle Anomalie, ovvero forme misteriche, arcane, ma anche archetipi di architetture mai nate dove il colore è costitutivo della forma. Attraverso il colore, Aricò permette la convivenza istantanea dell’oggettività della forma con la soggettività della sua percezione.
Il coraggio della prospettiva, quindi la conquista della profondità oltre il piano, è come un’indagine a ritroso nel tempo non priva di inventiva: un silenzioso omaggio all’opera di Paolo Uccello, al quale si dedica la seconda sala. «Non ebbe altro diletto che d’investigare alcune cose di prospettiva difficili e impossibili»: così recita Vasari nelle Vite in riferimento al maestro rinascimentale. Ecco il punto di fuga, fuori dall’opera, al quale tutte le linee convergono; tuttavia non è semplice derivazione geometrica. Le sagome vivono di un’“incertezza percettiva” quasi come se “prendessero in giro la continuità prospettica”, per citare Gillo Dorfles. In modo analogo, anche i colori sono solo in apparenza uniformi: sono di fatto scaglie di episodica ricerca tonale composte da infinite sfumature. Si genera un senso di profondità intuitiva, non postulata e faticosamente dimostrabile. Rispettando Vasari, il problema della prospettiva rimane impossibile.
Nel prisma di questa suggestiva sensibilità verso ogni storia dell’arte, Aricò non cade vittima del passatismo e anzi dimostra una notevole freschezza mentale, un forte atletismo della mente che lo fa essere sì interprete di una tradizione, ma anche ambasciatore di una personale visione della pittura oggettuale. In altre parole, si pone in una condizione di totale autonomia rispetto alle sperimentazioni artistiche a lui coeve, la cui analogia è possibile, ma solo apparente. Si pensi, ad esempio, all’esperienza del gruppo romano Forma 1, o ancora prima a quella del Movimento per l’arte concreta, sciolto nel 1958, dove si annoverano Bruno Munari, Ettore Sottsass e lo stesso Dorfles, ovvero quell’impulso all’arte non figurativa e priva di liricità che contraddistingue la produzione artistica di certi artisti, progettisti ed estetologi. Aricò collaborerà proprio con Sottsass una decade d’anni più tardi, nel 1967, con il progetto Una stanza nella stanza, pubblicato su Domus 457, per poi partecipare alla 34. Biennale di Venezia del 1968 su allestimento di Carlo Scarpa.
Oltre a quel Cubismo orfico di Robert Delaunay, Aricò volge lo sguardo oltreoceano, ammirando quella Minimal Art teorizzata da Richard Wollheim il cui intento è sostanzialmente ridurre l’arte al suo stato di struttura elementare. Tuttavia, il minimalismo si contraddistingue anche per un concetto di aridità emozionale dell’opera d’arte: questo rappresenta un conflitto sostanziale con Aricò il quale, in possibile analogia con Ettore Spalletti, intende fare di ogni quadro un evento di raccoglimento emotivo e percettivo, un ambiente di azione per l’immaginazione costruttiva, una pittura generatrice di spazi possibili.
Il piano inferiore si dedica alle opere degli anni Ottanta, dove parte dell’esposto apparteneva al ciclo “Oltre il limite”, presentato al PAC di Milano nel 1984: spiccano le famose shaped-canvas, ovvero oggetti pittorici dove la forte vibrazione cromatica è accolta su una sagomatura irregolare del telaio, parabolica o iperbolica, come fossero sul punto di espandersi nello spazio. La forma si fa architettura, finalmente dispone del coraggio di misurarsi con la costruzione reale, di mettere in scena la crisi della luce. In effetti le geometrie mutano, si ibridano facendosi sagome, squarci, si vestono di strati su strati di pittura. Dal concretismo, la composizione arriva quasi a farsi lirica, impalpabile, intelando una dicotomia filosofica e sostanziale. “Sovrapporre. Sovrapporre l’eterogeneo della percezione. Cancellare, moltiplicare, inspessire, mescolare impastare. Io e l’altro, la cosa eteroclita. Per tornare cose, dimensione del niente, del tutto”, descriveva l’artista. È il caso di Naturans, di Oltre il limite A, de L’irregolare 1984: “Mi interessava uno spazio oggettivato che contenesse la voce poetica, uno spazio che non si fermasse alla superficie ma si indirizzasse alla profondità del pensiero. Procedure certo mentali, ma anche emozionali”. L’arte diviene per Aricò un processo conoscitivo del reale. Farsi propria questa interpretazione è una vera e autentica attività ermeneutica.