Testo di Federico Abate —
Fino al prossimo 16 maggio, in occasione della mostra Garden of Trust: Visual correspondence between Gluklya and Kati Horna, lo spazio bolognese GALLLERIAPIÙ si trasfigura in un giardino esoterico carico di suggestioni oniriche, in grado di lenire il senso di oppressione prodotto dalla società contemporanea. L’eco remota che riverbera nelle sale è il richiamo alla stagione culturale del Surrealismo messicano, atipica avanguardia figlia delle macerie del Novecento, sospesa in un mondo di sogno carico di valenze sociopolitiche.
Le artiste Leonora Carrington, Remedios Varo e Kati Horna si conobbero a Parigi negli anni Trenta e allo scoppio della Guerra fuggirono insieme alla volta del Messico, legandosi in un’amicizia profonda e animando un cenacolo intellettuale che coinvolse tra gli altri Alejandro Jodorowsky, Edward Jones, Benjamin Péret, Emerico Weisz e Pedro Friedeberg. In particolare, la mostra offre l’occasione di gettare uno sguardo sulla produzione fotografica di Katalin Deutsch, in arte Kati Horna (Budapest, 1912 – Città del Messico, 2000), approfondita e interpretata dall’artista (e in questa sede quasi curatrice) Gluklya (Leningrad, 1969), pseudonimo di Natalia Pershina-Yakimanskaya. Il filo conduttore tra le pratiche delle due artiste è l’interpretazione della quotidianità come un velo che cela traumi e pulsioni, scaturiti dal confronto con dinamiche storiche e sociali opprimenti.
Così Kati Horna con la sua attività di reportage della Guerra Civile Spagnola decideva di orientare l’obiettivo verso soggetti ai margini della Storia (ad esempio le madri rimaste a casa ad accudire i figli), relegando la realtà del conflitto a rumore di fondo; analogamente, nella serie Hitlerei (1937), di cui è presente una foto in mostra, rappresenta in modo parodistico i tratti di Hitler su un uovo alla coque che di volta in volta viene colpito, rotto, tagliato di netto. Il surreale (che però trova la sua ancora in una realtà quotidiana e sommessa) è strumento per esorcizzare il precipitare degli eventi, che presto costringeranno la fotografa a lasciare l’Europa. Ottant’anni dopo, Gluklya guarda ai turbamenti dell’umanità del XXI secolo e offre un porto franco agli avventori della mostra, un “giardino della fiducia” in cui curare le ferite dell’animo grazie al confronto e al mutuo appoggio, così come il Messico aveva offerto rifugio durante la guerra agli artisti e agli intellettuali del Vecchio Continente.
Il “giardino”, di natura fluida e prismatica come ogni oggetto o evento partorito da una mente surrealista, si configura come un vero e proprio scenario teatrale allestito nelle sale della galleria, che in una prima fase dell’esposizione aveva ospitato un evento performativo durante il quale Gluklya si era interfacciata con i visitatori intorno ai temi della resistenza e della cura rispetto ai problemi delle proprie realtà quotidiane. Una serie di scritte e disegni col gesso riportati sulle pareti di fondo del palcoscenico evidenziano i concetti più rilevanti emersi durante gli incontri e variopinti “abiti concettuali” su fogli di carta traducono metaforicamente le interiorità dei partecipanti: vi si leggono didascalie come “Dress of dinamic joy for Marinella with the balance of geometric forms and small organic details”.
Tre di questi profili emotivi si addensano nella seconda sala in presenze fantasmatiche e fluttuanti che paiono veicolare emotività contraddittorie (Veils of Sorrow and Hope, 2022), sostanziate dal celare al loro interno oggetti donati dagli interlocutori della performance. Le installazioni impostano una vera e propria “corrispondenza visiva” con le opere di Kati Horna: con la foto della serie Hitlerei appesa accanto ad esse, in quanto sono decorate con gusci d’uovo; con Mujer y Mascara (1963), in cui una stanza in penombra è dominata da un’atmosfera di inquietudine e angoscia per la maschera mostruosa sospesa in uno spazio indefinibile (in basso una bambola pare che stia per essere fagocitata da un’altra creatura dell’incubo); ma anche con Los Reyes Magigos en la casa di Leonora (1949), in cui l’aria distesa di una recita religiosa in costume sembra auspicare un futuro di speranza. Il tema dell’abito come metafora di un vissuto è anche al centro dei Corona Drawings (2020) di Gluklya, acquerelli realizzati durante la pandemia che rappresentano dei vestiti dalle tinte violacee e nerastre, in cui i polmoni sono paradossalmente esteriorizzati, diventando ornamentazione.
Il collasso di emozioni e pulsioni contraddittorie ha il suo apice nella serie Oda a la necrofilia (1962) di Horna, cinque fotografie in cui una donna (Leonora Carrington) veglia una maschera adagiata su di un letto, effigie mortuaria di una salma di lenzuola disfatte. Dapprima vestita a lutto, poi sempre più messa a nudo, la donna passa dalla disperazione per la perdita alla veglia della maschera defunta, cullata e protetta con un ombrello, fino ad alludere ambiguamente ad un perturbante collasso dal Thanatos all’Eros.