Fino al prossimo 20 agosto FMAV (Fondazione Modena Arti Visive) propone presso la Palazzina dei Giardini un itinerario variegato nel mondo dell’arte influenzata dalla Game Engine Culture, una cultura ibrida che si fonda sull’assunto secondo cui i software che ad oggi gestiscono e governano ogni aspetto della nostra vita digitale sono spesso dirette filiazioni dei programmi impiegati negli anni Novanta e nei primi anni Duemila per sviluppare i videogiochi. Gli strumenti impiegati dai programmatori per creare ambienti virtuali e animazioni per fini videoludici hanno trovato sviluppo in un’ampia varietà di operazioni che connatura l’odierno scenario digitale, come i rendering per la grafica 2D e 3D, lo streaming e le intelligenze artificiali, trovando applicazione anche nei social network, nelle pubblicità sui siti web e nei software impiegati per l’economia e la finanza. Per gli artisti nati tra anni Settanta e Novanta, che hanno potuto rapportarsi direttamente a questo fenomeno inizialmente relegato ad una nicchia per poi vederne gli sviluppi sempre più pervasivi nella società, la Game Engine Culture offre anche una chiave di lettura della contemporaneità in tutte le sue contraddizioni; pertanto hanno ritenuto necessario e proficuo fare propri quegli strumenti digitali, per impiegarli come mezzi espressivi capaci di alimentare una riflessione teorica e politica. La mostra Is this real? L’arte nell’epoca della Game Engine Culture, a cura di Valentino Catricalà, intende dare conto di un ampio panorama di protagonisti di quella generazione, attivi con modalità e obiettivi differenti su questo versante della ricerca artistica.
Nella rotonda centrale della Palazzina dei Giardini accolgono il visitatore le sagome apparentemente anacronistiche di due sculture di tema classico, un fanciullo stante e un satiro ebbro reclinato. Le due opere, realizzate da Oliver Laric (Innsbruck, 1981), sono in realtà riproduzioni in resina di due statue realmente esistenti, che sono state scansionate e poi stampate in 3D in modo non uniforme, dato che, come si vede dal risultato finale, le parti che le compongono presentano finiture, colori e gradi di trasparenza differenti, in un patchwork che rivela in modo esplicito l’artificiosità dell’oggetto. La scelta delle opere prese a modello non è casuale: Jüngling vom Magdalensberg (2021) si rifà al bronzo della Gioventù di Magdalensberg, ritenuto per secoli antico, ma in verità un calco del XVI secolo di un originale perduto, mentre Reclining Pan (2021) è una copia da Francesco da Sangallo, che per realizzarne l’originale aveva impiegato un pezzo di marmo antico di riuso originariamente facente parte di una fontana, tanto che il beccuccio del getto d’acqua è tuttora visibile nella statua. In entrambi i casi, pertanto, al centro è l’annoso e attualissimo tema della metamorfosi e della riproducibilità delle immagini e dei diritti di copyright, visto con uno sguardo trasversale alla storia dell’arte. Nello spazio vuoto antistante le due statue sorprende veder camminare avanti e indietro, in totale autonomia, un “granchio” meccanico, il cui corpo consiste in un vecchio televisore anni Settanta rivolto verso l’alto, su cui sono innestate sei zampe robotiche dotate di sensori ad infrarossi. L’opera in questione, Video Machine Mobile AKA Crab (2022) di Donato Piccolo (Roma, 1976), si avvale di un’intelligenza artificiale in grado di comprendere la propria posizione nello spazio della sala e di attingere informazioni dai visitatori, in funzione delle loro posizioni reciproche. I dati acquisiti portano l’IA a prendere delle decisioni su cosa trasmettere sullo schermo, potendo attingere da spezzoni di programmi televisivi, videoclip e altri materiali video e audio. Così il machine learning consente al granchio di comunicare con le persone che ha intorno, prefigurando un tempo in cui gli oggetti saranno pienamente senzienti e consapevoli di se stessi.
L’ala sinistra della Palazzina si apre con una sala dedicata a The Wilding of Mars (2019) di Alexandra Daisy Ginsberg (Londra, 1982). I quattro schermi che compongono la videoinstallazione mostrano vedute di Marte che l’artista ha ottenuto rielaborando in CGI delle immagini registrate dalla sonda Curiosity. Invece che un paesaggio arido e desolato, Ginsberg immagina un giardino verdeggiante popolato di forme di vita terrestri, proponendo un’alternativa al luogo comune secondo cui il Pianeta Rosso è destinato ad essere nient’altro che una miniera di risorse da sfruttare. Segue più avanti un’installazione che presenta in parallelo la trilogia di opere video Every night I try to find the light but sometimes it’s too cold (2022) di Federica di Pietrantonio (Roma, 1996). La trama dei tre short film, intitolati rispettivamente But I wanna keep my head above water, Sorethroat e Rain on me e realizzati in CGI con un’estetica che richiama quella dei videogiochi, ruota attorno ad una figura ispirata alle ninfe del mito classico, trasposta in un futuro post-apocalittico: l’unico luogo in cui può trovare rifugio è una sorgente termale prodotta da un malfunzionamento idraulico (a questo alludono le cornici di tubi che sostengono gli schermi). La panoramica prosegue con il collettivo AUDINT (abbreviazione di Audio Intelligence, è attivo dal 2008), che lavora con la sound art – ad esempio impiegando il suono in un ampio range di frequenze per analizzarne l’influenza e l’impatto sullo stato psicofisico dell’ascoltatore. Oltre a questo, AUDINT opera anche nella direzione dello storytelling di mondi futuristici che permettono di riflettere sulla contemporaneità. In mostra è messo a disposizione dei visitatori Ghostcode (2021), un graphic novel di oltre 250 pagine che intreccia testi, illustrazioni e infografiche per costruire il racconto di un futuro distopico in cui gli equilibri globali sono determinati da esseri olografici evoluti in grado di utilizzare il suono dell’agonia umana come fonte di energia, creando così un’economia fondata sul dolore dei loro creatori, ormai schiavizzati.
Segue The Fertile Image (2020) di Mishka Henner (Bruxelles, 1976), una grande composizione a parete di 300 immagini 10 x 12 cm, generate da un’intelligenza artificiale a partire da una coppia di immagini madri presenti al centro, che sono frutto a loro volta di un processo generativo automatico, a partire da milioni di referenti visivi presenti nelle banche dati dell’IA. L’opera mostra tutto il potenziale di questa nuova tecnologia, che sembra richiamare le pratiche di produzione spontanea impiegate dai surrealisti un secolo fa, ma con un livello di potenza immaginativa esponenzialmente maggiore e privando definitivamente l’essere umano del suo ruolo residuo nell’atto creativo. In fondo alla stanza, uno schermo collegato ad un visore di realtà virtuale permette di immergersi in Liminal Lands (2021) di Jakob Kudsk Steensen (Danimarca, 1986), consistente in una serie di ecosistemi virtuali in continua trasformazione in cui è possibile navigare in prima persona. Gli elementi naturali presenti all’interno di questi ambienti immersivi sono il risultato di un processo di rielaborazione 3D di fotografie scattate nelle paludi del delta del Reno, nella regione della Camargue; più precisamente nella Salin-de-Giraud, un paesaggio modellato dall’attività plurimillenaria di produzione del sale, alla quale si è adattato l’ecosistema locale, che sfrutta il sale come fonte nutritiva. L’accurato lavoro di documentazione fotografica condotto da Steensen permette, nella versione digitalizzata e navigabile, di avere una prospettiva inedita anche su processi biologici che avvengono ad una scala microscopica, normalmente sconosciuta all’occhio umano. Spostandosi nell’altra ala della Palazzina ci si trova di fronte ad un altro lavoro che ha a che fare con un contesto naturale letto e interpretato attraverso la tecnologia. Si tratta di Promenade (2018) di Quayola (Roma, 1982), un’opera video girata con l’ausilio di un drone in una foresta della Valle di Joux, in Svizzera. Gli alberi ripresi dall’alto si riempiono progressivamente di piccoli punti laser, tramite cui viene ricavata una scannerizzazione del paesaggio. L’effetto dal punto di vista visivo è il passaggio dalla semplice registrazione del dato reale ad un’immagine digitale, in bianco e nero, che si costruisce punto per punto mentre il drone avanza nella foresta.
L’ultimo ambiente si apre con alcuni lavori di Auriea Harvey (Indianapolis, 1971), una stampa 3D in resina di un piede alato innalzato su una base (The Messenger, 2021) e un video di formato verticale che mostra una colonna accesa di colori opalescenti le cui parti costituenti ruotano vorticosamente su se stesse; su di esse campeggiano dei teschi, il volto dell’artista o altri volti prelevati da modelli antichi (The Mystery v5-dv2 (chroma screen) MYSTCS loop 8, 2021). Come le sculture di Oliver Laric presenti nella rotonda, anche le opere di Auriea Harvey si rifanno a modelli del passato, che siano le rappresentazioni manieriste di Mercurio o statue di età ellenistica. Anche il processo realizzativo è ibrido: l’artista produce i modelli virtuali a partire da sculture in argilla, oppure “scolpisce” direttamente in digitale tramite appositi software; decide poi se stampare in 3D quanto prodotto in questo modo e interviene nuovamente sul risultato finale dell’estrusione in resina con terracotta, argilla epossidica e pittura acrilica. Nel caso di The Messenger, la scultura è esposta accanto ad un tablet che permette di visionare il modello 3D da cui è derivata. Accanto ai lavori di Harvey sono proiettate in alternanza due opere video. Bina48 (2015) di DIS (progetto collaborativo fondato nel 2010 e ora composto da Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro) è dedicato ad un omonimo androide rilasciato nel 2010 la cui intelligenza artificiale è stata plasmata sui ricordi di Bina Rothblatt, che con il marito Martine ha fondato Terasem, una sorta di religione fondata sull’assunto che in futuro gli umani avranno delle repliche digitali della propria mente, alimentate dalla propria attività sui social network e sugli acquisti online. Nel 2015 DIS ha intervistato Bina48 riguardo a temi profondi come la sua percezione di sé. DKP is Market Socialism (2022), ad opera di Joshua Citarella (New York, 1987) con il supporto di Jacob Hurwitz-Goodman, è una disamina di taglio documentaristico riguardante un sistema di redistribuzione delle risorse inventato dagli utenti del videogioco multiplayer online World of Warcraft. I giocatori combattono collettivamente contro boss molto potenti per poi ridistribuire il bottino secondo un sistema economico non previsto dagli sviluppatori in fase di programmazione che, secondo l’artista, può essere accostato al modello del socialismo di mercato. Centrale, ancora una volta, è la riflessione riguardo a quanto gli spazi virtuali siano costantemente oggetto di una contrattazione sociale da parte degli utenti che li frequentano.