Dal 15 ottobre 2024, la GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino ha riaperto con PRIMA RISONANZA, il nuovo allestimento delle collezioni permanenti curato da Chiara Bertola, Elena Volpato e Fabio Cafagna; un complessivo progetto di riqualificazione che vede nell’attuale completamento del Lotto Zero la sua anticipazione. Visitando i rinnovati ambienti della GAM, si avverte l’idea di uno spazio inteso come un organismo aperto, fluido, intrinsecamente incompiuto e in costante trasformazione, grazie ad accostamenti in cui epoche e stili si mescolano, creando volute affinità o dissonanze tra artisti storici e contemporanei. In questo spazio in divenire le mostre di tre grandi artiste – Berthe Morisot (Bourges, 1841 – Parigi, 1895), Mary Heilmann (San Francisco, 1940) e Maria Morganti (Milano, 1965) – si manifestano come opere vive, in dialogo continuo con gli allestimenti, in un intreccio di luce, colore e tempo, che ne rappresentano i nuclei generativi. Qui, il concetto di percorso di visita tradizionale risulta dunque riduttivo: anziché guidare il visitatore lungo un tracciato lineare o cronologico, le opere offrono una narrazione frammentata ma al contempo coerente, in cui ogni sala può essere vista come una tappa unica, portatrice di significati propri, indipendenti, eppure intimamente connessi con quelli delle altre. Persino le mostre monografiche si liberano da un approccio ordinato, celebrando l’autoaffermazione della pittura delle singole artiste, ciascuna con una propria visione del mondo che si auto-sostiene ed è sostenuta da uno sguardo complessivo. È proprio questo principio di irresolutezza, comune tanto alle tre protagoniste quanto alle collezioni stesse, che libera il visitatore dalla necessità di un punto di partenza predefinito. Eppure, se volessimo individuare un incipit in questo organismo così interconnesso, potremmo farlo coincidere, per il suo valore universale, con un oggetto-opera specifico: Ciotola per “Sostituto GAM Torino” 2019 (i. 2013), posto esattamente all’entrata della mostra di Maria Morganti, a cura di Elena Volpato (fino al 15 marzo 2025). Giorno dopo giorno, l’artista la utilizza come tavolozza per mescolare un nuovo colore, stratificando ogni tonalità su quella precedente: un rituale che prosegue da anni nel delineare una memoria cromatica che evolve in una più complessa dimensione diaristica dell’esistenza. Intravedendo una certa assonanza, la GAM stessa sembra amplificare il processo della ciotola, accogliendo l’arte e lasciando che “accada”, per dirla con le parole di Morganti.
Abbracciando oltre trent’anni di lavoro (1988 – 2024) dell’artista, la mostra pulsa del colore e del tempo che hanno vita nel fulgore della luce e persino nel suo inabissamento, sotto una coltre di materia che ci avvolge nell’ingresso dov’è posta la Ciotola. Solo apparentemente violacea, la carta da parati (Dentro la melma #1 2024, i.2020), fotografa il residuo di anni di pittura lasciato a sedimentare sul fondo dello sgocciola-pennelli dell’artista. Il principio e il compimento. Proseguendo oltre una serie di disegni e pastelli realizzati durante la giovinezza dell’artista, incontriamo il nucleo centrale della mostra: il Luogogesto (2018 – in corso), lo studio di Maria Morganti, qui interamente trasportato da Venezia al centro dello spazio espositivo. In quest’area, Morganti lavora quotidianamente e muovendosi sempre in senso antiorario tiene traccia del suo passaggio, dei suoi innumerevoli “esserci” che attraverso il colore si depositano su ogni elemento che compone il Luogogesto. Nella serata inaugurale del 29 ottobre 2024, due artiste collaboratrici di Maria Morganti hanno dato vita alla performance Ostensione #1 2024 (i.2022): un’azione rituale in cui hanno estratto, una a una, tutte le opere appartenenti alla serie delle Sedimentazioni e dei Diari, rispettivamente prelevate dal Sedimentario e dalla Diarioteca, due archivi parte del Luogogesto. Le opere sono state appese lungo le pareti dello spazio espositivo, già preparate con viti che vanno a formare la Parete pittura #4 2024 (i.2020), per questo visibile solo alcuni minuti prima della performance. Dopo l’atto di Svuotamento, le performer hanno rivelato, come gesto finale, il Quadro infinito che dal 2006 si evolve quotidianamente all’interno di una teca. Si delinea in tal modo una cronologia visiva sulle pareti che, come in una partitura musicale, intende restituire 22 anni di pittura compressi in un’unica sequenza di crescendo e diminuendo. Ciò che resta viene assunto come monumento al processo nell’Accatastamento #1 2024 (i.2022), un punto di condensazione di quanto è stato fatto e di ciò che è rimasto in sospeso.
L’idea di una “musicalità cromatica” che si allontana dal rigore formale di Morganti ma che conserva la stessa intensità sensoriale, emerge con forza nella mostra di Mary Heilmann, curata da Chiara Bertola (fino al 15 marzo 2025). Dai primi dipinti degli anni ’70 fino a quelli più recenti, Heilmann ha sempre parlato della sua pittura come di una composizione: attraverso la ripetizione di motivi e immagini, che creano una sorta di “loop” visivo – come le onde, le linee fluide e le forme geometriche –, evoca un movimento ritmico che richiama l’improvvisazione. Come in Good Vibrations Diptych, Remembering David (2012) che riunisce due dipinti risalenti al 1992 e al 1993 in cui una sequenza di elementi formali si sussegue in un movimento oscillante tra tensione e distensione. I pieni dei pois di ceramica si alternano al vuoto della parete bianca e, con le loro geometrie imprecise e irregolari, danno realmente corpo ad una bidimensionalità già usurata dai bordi della tela consunti di pittura. Gli anni ’70 a New York importano una transizione dalla scultura alla pittura nel lavoro di Heilmann, conseguenza di un distacco dalla rigidità del minimalismo, ancora troppo legato ad un formalismo geometrico a cui l’artista non sente di appartenere. E lo vediamo ad esempio in due suoi importanti lavori di questo periodo come Chinatown (1976) e The Rosetta Stone I (1978), che presentano una sovrapposizione di geometrie trascinate e nel loro disordine riflettono il caos della metropoli americana. Un’attitudine che la porterà progressivamente, nel decennio successivo, ad assimilare un linguaggio a tratti postmodernista e, in quanto tale, intriso di contaminazioni personali. Emblema di questa sua fase è Save the Last Dance for Me (1979), dove tre quadrati rosa su sfondo nero, pur mantenendo una struttura formale, sono “interrotti” da piccole gocce di colore rosa che scivolano sulla tela come tracce di una mano maldestra. Il loro irrimediabile disturbo alla perfezione della geometria rende ogni composizione di Heilmann un’azione irripetibile e autentica nella sua vulnerabilità. Un impatto materico di cui è possibile trarre una genesi dal pensiero filosofico di François Jullien, e nel suo concetto di “de-coincidenza”: anziché cercare una perfetta corrispondenza tra forma e contenuto, Heilmann si muove nella discrepanza e nello scarto, affidando alla variazione del tono cromatico una tensione interiore. La sua pittura si costruisce nei margini, nei luoghi dove il risultato non è mai definito e il tempo della vita detta una sola regola: “qui e ora”.
Un intento complessivo di chiara matrice biografica e che ben si allinea con la terza mostra che inaugura la nuova GAM: Berthe Morisot. Pittrice impressionista (fino al 9 marzo 2025), a cura di Maria Teresa Benedetti e Giulia Perin. Vi sono esposte oltre 50 opere, tra prestiti internazionali e collezioni private, che vogliono ricostruire la produzione artistica della più importante presenza femminile all’interno del gruppo impressionista. La mostra si apre con un Autoritratto (1885) della collezione del Musée Marmottan Monet, in cui Morisot si autocelebra come artista affermata. Un ruolo importante è ricoperto dalla sfera familiare, esplorata con ritratti del marito Eugène Manet e della figlia Julie, accanto a immagini di donne che fluttuano tra l’intimità domestica e la vivacità della vita sociale, come Donna con ventaglio (Al ballo) (1875). La luce e le sperimentazioni cromatiche tipiche del periodo rifulgono nella sezione dedicata all’en plein air, con paesaggi come quello di Gennevilliers e il Bois de Boulogne. Il tema dell’incompiutezza che già legava in un sottile sostrato culturale le altre due mostre assume qui una declinazione ulteriore, attraverso l’abbattimento della distinzione tra disegno e colore applicata da Morisot, fedele alla sua ricerca di immediatezza espressiva di ovvia impronta impressionista. Il tutto è incorniciato da un display progettato dall’artista Stefano Arienti, il così detto Intruso. Il progetto, voluto dalla direttrice Chiara Bertola, si ramifica tra le sale della mostra con carte da parati floreali e nastri d’organza, un pianoforte, un attaccapanni e una bacheca di frutta di Francesco Garnier Valletti. “Quadri di pongo” e un tappeto trompe-l’oeil di un prato soleggiato nella stanza del giardino d’inverno riscaldano l’ambiente intriso da pittura en plein air. L’intervento di Arienti prosegue lungo i tre piani del museo con il disegno su un telo antipolvere di una grande montagna dorata, un grande pioppo che fuoriesce dai pavimenti arabescati di marmo lungo le scale del primo piano e due meridiane poste in corrispondenza delle entrate del Deposito Vivente, al secondo piano. Arienti ha contribuito anche alla selezione delle opere e alla realizzazione dell’allestimento. Arienti ha inoltre collaborato alla selezione delle opere e all’allestimento, che mette in luce l’essenza brutalista dell’edificio progettato da Carlo Bassi e Goffredo Boschetti nel 1959. Le pareti, spogliate degli interventi successivi, rivelano i muri inclinati originali, restituendo autenticità all’architettura. Dipinti, disegni e sculture, inclusi pezzi raramente esposti, sono presentati su scaffali e griglie, creando accostamenti inediti tra capolavori e opere meno note. Arienti ritorna con l’idea del tappeto nella sala di riposo che precede l’uscita dal Deposito: una fotografia dell’immagine di una superficie d’acqua stampata su moquette crea idealmente un movimento di continuità con l’articolazione nelle quindici sale delle collezioni della GAM.
Opere storiche e contemporanee s’intrecciano, “risonanti” nella luce, nel colore e nel tempo, in raffronti tematici che si declinano secondo visioni comuni o discordanti. Nella prima sala, il cui titolo Muri richiama la consistenza delle opere qui esposte e trasformate dal tempo in composizioni involontarie, Cy Twombly, giunto a Roma negli anni ‘50, si confronta con artisti come Alberto Burri e Achille Perilli e con le foto di Nino Migliori, che immortalano pareti degradate e segnate. Mentre gli italiani lavorano il bianco con materiali ruvidi, creando composizioni astratte, Twombly mescola pittura e segni grezzi, sospeso tra il pop e un’eco dell’espressionismo astratto. Nella sala Tramonti, il riverbero di una misteriosità intrinseca ai paesaggi crepuscolari di Mario Reviglione, Luigi Onetti e Augusto Carutti di Cantogno si confronta con l’opera Attaccapanni (di Napoli) (1976) di Luciano Fabro, in cui il respiro dei colori della città partenopea, dal rosa-azzurro al viola, trasmuta nella notte. Nella sala Semine, le fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni ’50 e ’80 da Mario Giacomelli trasformano i paesaggi marchigiani in superfici incise che seguono l’andamento sinuoso dei campi. In netto contrasto, le opere di Pedro Cabrita Reis rivelano geometrie dure, costruite con travetti di cemento armato prefabbricato. Entrambe le serie, però, restituiscono l’idea di un’estate tanto luminosa quanto arida. E gli accostamenti ossimorici proseguono in Disegno e Pittura, in cui sono riuniti i lavori di Karel Appel e Pesce Khete. In Appel, la pittura esplosiva non si limita alla tela, ma la trascende, generando un movimento che va oltre i confini del quadro. Le linee, intense e contorte, sembrano esplodere da un centro, creando un dinamismo che dilaga nello spazio; lo stesso dinamismo che per Pesce Khete connota la pittura come un racconto visuale in cui le campiture materiche si sovrappongono, aggiungendo nell’evoluzione del lavoro nuovi centimetri di carta. Ancora, in Pulviscolare, l’uso del bianco in Innesto (1982) di Paolo Icaro si unisce alla delicatezza delle pennellate di Filippo De Pisis e Bill Lynch, assolvendo alla volontà di una rarefazione atmosferica, che permane a seguire nella sala Terra e vapori: da Aprile (1872-1873) di Antonio Fontanesi, che cattura la luce sfumata di un paesaggio montano, alle fotografie di Luigi Ghirri, che immortalano la condensa e il vapore come elementi vitali del paesaggio, permeato da una luce liquida, che trova una corrispondenza nelle opere di Michele Tocca. Nella sezione Schermi, riflettendo sulla dimensione della tela in quanto schermo, ovvero come spazio di apparizione delle immagini, Mario Schifano, Franco Angeli, Andy Warhol, Pino Pascali e Luca Bertolo esplorano l’ambiguità tra il colore e la sua relazione con le immagini mediatiche. Se Schifano smussa gli angoli dei suoi monocromi, Franco Angeli reinterpreta i colori della bandiera francese come superfici che rivelano simboli politici e religiosi. Andy Warhol utilizza invece la serigrafia per ripetere immagini prese dai media, e Pascali spinge la figura a sembrare pronta a fuoriuscire dalla bidimensionalità del quadro. Cinquant’anni dopo, Luca Bertolo con Google+search+images+refugees+boats (2019) mostra rettangoli di colore che preludono all’apparizione sul display del computer di immagini di migranti e barche. La vivacità del colore viene così interdetta da un senso di inquietudine che rimugina sul senso di allerta, oltre l’apparente leggerezza visiva.
Cover: Maria Morganti, GAM, installation view | Photo Luca Vianello e Silvia Mangosio