Rileggere Gae Aulenti (1927-2012) oggi ha le sue complicazioni, prima tra tutte, per me, se chiamarla architetto o architetta. Una sciocchezza, un dettaglio? No, se consideriamo che lei ha dimostrato che “Architettura è un sostantivo di genere femminile” (Battisti, 1979). Certo, architetta tradisce un problema non filologico per la storia dell’arte e il tempo. Dovrei vergognarmene. Ma anche chiamarla “La Gae” tradisce una certa familiarità d’eccesso, una familiarità destinata alla prossimità, ma sostanzialmente affibbiata alle professionalità femminili (non so in quanti abbiano mai chiamato De Lucchi “il Michele” o Giò Ponti “il Giò”).
Poi c’è una dimensione aurale, che sentiamo verso chi ammiriamo fortemente, o a cui vogliamo bene, e che ci porta a citarne il lavoro oltre ogni messa in discussione, oltre le “pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica”, come Aulenti avrebbe voluto. Quando la gloria è negli occhi di un fan, ogni ricostruzione storica è un pro forma, una tappa da “guardare e non toccare”, che può generare una catena di citazionismo (ma forse è anche questo l’obiettivo di una mostra).
O anche, l’installazione cronologica di matrice causale applicata nella costruzione della mostra Gae Aulenti (1927-2012), curata da Giovanni Agosti, è molto più di uno spaccato su di lei: è una macchina di visione sui generis creata attraverso un lavoro sui suoi progetti. Triennale di Milano propone una “macchina evocatoria”, che restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, tredici tappe fondamentali della storia di Aulenti da L’arrivo al mare (1964) all’«aeroportino» di Perugia (2012).
In questa macchina di evocazioni alcuni progetti sono ricreati in scala 1:1 e presentati in senso cronologico. Ciò che guardiamo attraversando gli spazi del museo meneghino sono ambienti che si presentano un po’ come scenografie di design e un po’ come set cinematografici disabitati. Gae Aulenti arriva al fruitore attraverso la messa in scena di spazi da lei disegnati, attraversabili ma non toccabili; quindi, direi osservabili come set fotografici pronti all’uso.
Il curatore, cercando forse di rendere a noi contemporanea Gae Aulenti, ha scelto di affiancare alla presentazione di disegni tecnici e materiale storico nel perimetro della mostra, la ricostruzione in scala 1:1 di spazi creati da lei, ripresentandoli in ordine “cronologico e con un retrogusto cubista”. L’esperienza di fruizione è una sorta di passeggiata nel tempo, in cui ci è dato guardare alcuni spaccati di progetti presentati in un format non molto dissimile da stand fieristici, seppur geometricamente audace. La vicinanza tra il format espositivo sperimentato sul lavoro di Aulenti e i dispositivi commerciali ci induce al consumo di un passato recente – quello dell’architetta –, dissimulandone forse l’invecchiamento. Chi siamo e cosa stiamo diventando davanti a queste impalpabili campane di vetro?
In Disordered Attention (2024) Claire Bishop dedica un capitolo al Déja Vu: Invocazione dell’Architettura e del Design modernista. La critica si concentra sul fatto che dagli anni Novanta in poi un numero crescente di artisti ha citato l’architettura modernista e l’affascinante austerità estetica del design. La citazione del modernismo in arte è presentata come uno stile, un’ossessione artistica con il modernismo, che si pone in uno strano rapporto citazionista con la storia in un’epoca digitale. Forse questa mostra è strutturata così, come in forma di citazioni, per cui gli ambienti creati da Aulenti qui sono virgolettati dalle pareti allestitive.
A ciò, però, aggiungiamo il fatto che la gran parte di noi vive con uno smartphone in mano e sempre più spesso le mostre, le opere stesse, sono pensate per poter essere fotografate e instagrammate. Il virgolettato storico allestitivo dell’opera di Gae Aulenti sembra richiamare una relazione diretta con la fotografia e la sua condivisione online. Forse questa mostra, come altre, sarà più vista in JPEG o su magazine che nel museo. La scelta di questo format allestitivo ha un impatto diretto sul lavoro della designer. Forse è stato scelto proprio per fare esplodere la macchina di evocazioni nelle sue repliche digitali.
Ma torniamo agli albori dello screen, quando lo shopping si faceva visitando negozi “analogici”. Pare esserci una relazione tra l’allestimento in Triennale e la promozione di tendenze per mezzo di vetrine. Questo dispositivo commerciale è riportato in maniera letterale nella ricostruzione dello showroom FIAT a Zurigo (1970). Qui il confronto tra auto nelle strade della città svizzera e auto immobili dentro alla concessionaria portava la strada, la vita, nel luogo di vendita. Ora siamo noi le figure che sfrecciano fuori da questa vetrina senza vetro e la distanza da ciò che guardiamo è ridotta, anche se non si può toccare, anche se il vetro sta nella memoria del progetto originale.
Tornando all’idea della costruzione di questa mostra in forma di vetrine che vediamo passeggiando in una città contemporanea, pensiamo che per Gae Aulenti l’architettura era legata alla polis: “è un’arte della città, della fondazione, per cui non può che essere riferita e condizionata da quel contesto in cui nasce”. E se nel descrivere la rifunzionalizzazione della Gare d’Orsay di Parigi (1980-86) Germano Celant parlava di città eretta all’interno della vecchia stazione, forse anche nel caso di questo allestimento possiamo parlare di una città ideale, in cui il tempo struttura un continuum spaziale impossibile, che porta sullo stesso piano interventi internazionali dell’architetta. Ma cosa produce questo medium? Forse omogenizza il fare di lei, come in capitoli di una Dogville di Lars Von Trier, pronta per essere recitata e percorsa passando da uno schema all’altro. O prepara dei set abitabili aprendo la porta su un altrove a cui accediamo attraverso il design.
Forse questo a lei non sarebbe dispiaciuto? Sono molti i suoi progetti per il teatro di prosa e per l’opera lirica che definiscono presenze icastiche, che definiscono gli spazi in rapporto con l’azione scenica, come nell’Elektra di Richard Strauss (1994), con la regia di Luca Ronconi. Non c’è un impianto scenografico nei progetti di Aulenti, ma piuttosto l’intenzione di produrre un’immagine permanente e non segni limitati all’occasione. È nella sua vocazione teatrale che, come ha scritto il curatore della mostra Giovanni Agosti, Aulenti raggiunge gli apici della propria creatività. Forse per questo il curatore ha disseminato il teatro ovunque.
Mentre la classicità di Gae Aulenti riflette un fare eco dello spessore misterico dei luoghi, alcuni suoi progetti scoprono una dimensione imprevista della realtà, in cui l’interior design diventa il luogo di una “fiction teatrale”, non per sostituire la realtà, ma per aumentarne lo spessore drammaturgico. È il caso di uno dei progetti più entusiasmanti, teatrali e avveniristici, ovvero Casa Ambiente, l’installazione da lei creata per la mostra “Italia: The New Domestic Landscape” al MoMA di New York nel 1972, presentata in Triennale in forma di documenti in una teca. Il suo fare metafisico è nella ripresentazione di forme simboliche, come l’uso del rosso e dei pilastri, costanti drammatiche che vigilano sulla scena architettonica arginando ogni rischio di percezione accomodante. Ma la vocazione teatrale è qualcosa che possiamo leggere anche nell’allestimento con Stringa (1963) e Jumbo (1967), accompagnati da un taglio serio e discreto nella pareti di fondo, che collega direttamente gli ambienti disegnati per la famiglia Brion con il lifestyle promosso da riviste come Wallpaper, che ha visto emergere dalla fine degli anni Novanta una classe sociale abbiente che popola le proprie case con oggetti modernisti, in cui la prossimità con le cose ha un potenziale trasformativo.
Gae Aulenti (1927-2012) racconta la storia di lei o ne invoca la visione? La citazione lineare delle opere ci dice di un fare della storia dell’arte rispetto ai suoi oggetti, che rinasce in un approccio nominalista con la storia. Qui l’obsolescenza di un atteggiamento storico che diventa spazio ci parla non solo di Gae Aulenti, ma forse ci racconta anche come ci relazioniamo alla storia del design italiano, con tanta ammirazione da con-fondere una potenziale reinvenzione con un atteggiamento nostalgico.
Gae Aulenti (1927-2012)
In collaborazione con: Archivio Gae Aulenti
A cura di: Giovanni Agosti
Con: Nina Artioli e Nina Bassoli
22 maggio 2024 – 12 gennaio 2025
Triennale Milano