A luglio inoltrato mentre l’estate sembra lentamente in salita e nelle piazze italiane il ricordo del lockdown ha tutta l’aria di essere svanito nel nulla, in quell’universo senza regole dove gravitano incessantemente gallerie, fondazioni e spazi indipendenti qualcosa ha ripreso a muoversi.
Nelle settimane precedenti dopo che Miart ha sciolto ogni indugio, l’edizione 2020 si farà ma per la prima volta verrà presentata rigorosamente in digitale, anche dalla capitale arrivano notizie incoraggianti, non mancano le inaugurazioni e le novità come nel caso della programmazione culturale di Romarama, delle mostre e delle residenze d’artista al Mattatoio e della riapertura ufficiale del MACRO sotto la guida del neodirettore Luca Lo Pinto. Ma se non fosse per la voglia di ripresa post pandemica che anima il sistema, in tempi di normalità quale sarebbe il livello di attenzione e sperimentazione artistica presente nella scena romana e più in generale in quella italiana? Eppure ogni volta che dobbiamo fare i conti con i nuovi inizi e rileggere il presente, non possiamo fare a meno che ripensare al passato. In quest’ottica di comprensione che ruota intorno alle dinamiche del contemporaneo, riemerge con forza il confronto con una delle stagioni più memorabili della storia dell’arte contemporanea, quella dei ruggenti e drammatici anni ’60- ’70 senza dimenticare inoltre che, la celebre mostra Live in Your Head. When Attitudes Become Form, ideata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, viene inaugurata nel 1969.
Per Future Interviews’Archive oggi presentiamo il contributo del gallerista Fabio Sargentini, in realtà la definizione di “gallerista” intesa nell’accezione più classica del termine, rende poca giustizia nei confronti di colui che è maestro e interprete totale delle avanguardie artistiche, teatrali, musicali e performative di quegli anni.
Quando nel 1968 Sargentini decise di spostare L’Attico in un garage di via Beccaria, rivoluzionando per sempre la concezione dello spazio espositivo, aveva alle spalle tutta l’esperienza e la militanza vissuta insieme al padre Bruno, con il quale fondarono nel novembre del 1957 la galleria L’Attico in Piazza di Spagna. Qualche anno più tardi nel 1966 padre e figlio presero strade diverse, Sargentini senior aprì una nuova sede in via del Babuino a pochi passi da Piazza di Spagna, mentre Fabio continuò ad esporre nella galleria originaria, accogliendo le mostre di Pino Pascali, Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Eliseo Mattiacci e Simone Forti solo per fare qualche nome.
L’avventura della galleria L’Attico per come l’abbiamo studiata nei libri di storia dell’arte termina quando, nel giugno del 1976, l’ideatore di quel luogo primigenio dedicato alla sperimentazione artistica decise di inondare con 50.000 litri di acqua il suo garage, e questa è solo una parte della storia di Fabio Sargentini, perché l’altra metà attraversa con rinnovato vigore tutti gli anni ’80 fino ad arrivare ai giorni nostri.
Giuseppe Amedeo Arnesano: Superata la fase critica della pandemia, per il sistema dell’arte si apriranno nuovi sviluppi?
Fabio Sargentini: Non ho più la sfera di cristallo che immodestamente possedevo negli anni sessanta e settanta. Allora avevo intorno ai trent’anni, oggi ne ho compiuti ottanta e sono inevitabilmente disincantato. Vengo da un’epoca dove l’espressione artistica non era ancora così condizionata, incalzata dalla tecnologia. Persino l’arte concettuale, che aveva apparentemente negato la pittura, la riportò in auge col citazionismo.
Oggi la tecnologia mette in crisi ulteriormente la manualità dell’arte visiva dominata dal video. Mi domando: sarà praticabile il linguaggio della pittura nel futuro? Io me lo auguro. Sono sviluppi che non so prevedere, come le dicevo non ho più la sfera di cristallo. Quanto alla pandemia, spero che ne usciamo al più presto.
Il mio orizzonte di vita mi dice che se voglio fare ancora due o tre cose buone, chiudere in bellezza la carriera, non posso farmi depredare dal virus di altro tempo prezioso.
GAA: Ad oggi, qual è lo stato del panorama artistico romano considerando le gallerie, i musei, le fondazioni e gli spazi indipendenti?
FS: Ancora devo rifarmi ai miei anni eroici. Allora le gallerie di punta erano infervorate e orgogliose della loro appartenenza all’avanguardia. Alta era la competizione tra gallerie e tra artisti. Il mondo dell’arte ribolliva di idee, c’era un rilancio continuo, basti pensare che la mia galleria garage si apre il 21 dicembre del ‘68 con dei film sperimentali, tra i quali spicca SKMP2 di Patella. Qualche giorno dopo, il 14 gennaio del ‘69, si inaugura la prima mostra vera, quella dei cavalli vivi di Kounellis. La seconda mostra, a febbraio, è di Mario Merz, che espone tra le altre opere l’automobile con cui è arrivato da Torino.
La terza mostra, a marzo, è di Mattiacci che invade lo spazio disseminato di terra con un rullo compressore. La quarta mostra, a maggio, la personale di Sol Lewitt, “Wall Drawings”, è il debutto europeo dell’arte concettuale americana. La quinta, a maggio, è la personale di Luca Patella, che espone due sfere proiettive simili a grandi mammelle pulsanti. La sesta, che non è una mostra, ma più mostre insieme, è il “Festival di Danza, Volo, Musica, Dinamite”, della durata di due settimane, dal 9 al 23 giugno, prima europea per quasi tutti i performers americani partecipanti. E poi, scavallata l’estate, a ottobre, la prima mostra di land art in Europa, “Asphalt rundown” di Bob Smithson, colata di catrame liquida che imprime sul declivio della collina come una grande pennellata nera. Dulcis in fundo, a novembre, l’esordio a ventidue anni di Gino De Dominicis con Lavori Invisibili.
Che anno il 1969! Quanto ben di dio! Installazione, performance, musica, danza, arte povera, land art, arte concettuale, racchiuse in un solo anno solare.
Vogliamo paragonare quei tempi frenetici a questi stagnanti di oggi? Tutto è cambiato. Ora ci sono istituzioni museali dedite al contemporaneo, mentre le gallerie private sono tornate a perseguire precipuamente il profitto. Vince il modello della galleria multinazionale, il cui massimo esponente è Gagosian. Altro che il romanticismo del mio garage di via Beccaria!
GAA: Perché oggi l’arte italiana non ha quella forza di rinnovamento che ha avuto sul finire degli anni ‘60?
FS: Forse perché le rivoluzioni devono partire dal basso. Oggi un giovane artista ambisce subito al museo. Una volta esporre in gallerie come la mia e in poche altre significava il vero battesimo. Ma le istituzioni non sanno e non possono dedicarsi a crescere un giovane, la cui maturazione ha i suoi tempi.
GAA: All’inizio della sua attività di gallerista era più semplice o più difficile rispetto a oggi promuovere l’opera di un giovane artista?
FS: Senz’altro più semplice. Oggi la schiera degli artisti è sterminata. Si è sempre detto: molti sono i chiamati e pochi gli eletti. Ma adesso è troppo, la confusione è enorme. Il filtro della critica non esiste più e giocoforza la qualità ne risente. E’ incredibile, anche se le probabilità di fallimento sono altissime, permane il richiamo del mito dell’artista, come di un essere superiore agli altri.
GAA: Come ha conosciuto e cosa le ha lasciato a livello umano Pino Pascali?
FS: L’incontro con Pascali, l’ho sempre detto, è stato per me cruciale. Poggiando sul nostro sodalizio mi sono staccato da mio padre e fondato la mia galleria. Dopo la morte di Pino ho continuato a esporlo in vari modi, con mostre che hanno lasciato il segno, come “Ponti sull’acqua”, “Cannonata”, “Pascali performer”, “Pascali geometrico”. E poi, promuovendolo nel mondo, nei musei e nelle gallerie più importanti. Dal punto di vista umano non ho mai conosciuto un artista più generoso di lui verso i colleghi. Mi spronava a esporli senza alcuna remora. “E fagliela ‘sta mostra a Renato”, ripeteva spesso lui. Anche se il lavoro di Renato non mi convinceva e non gliel’ho fatta.
GAA: Come è stato il suo rapporto artistico e amichevole con Jannis Kounellis dopo l’arrivo di De Dominicis?
FS: E’ da quel momento che si va consumando il mio rapporto con Kounellis fino alla rottura, che tale resterà per tutti gli anni a venire. Jannis non aveva digerito l’ingresso a l’Attico di Gino, che sparigliava le carte con le sue opere cerebrali, a volte spregiudicate, come la “Mozzarella in Carrozza”. Jannis in qualche modo la mise così: o me o lui. E io non potevo subire il suo diktat, anche se perdere Kounellis era un colpo durissimo.
Fu così che nel prosieguo degli anni mi ritrovai da solo nel rivendicare la primogenitura, sacrosanta, della mostra “Fuoco Immagine Acqua Terra” nella nascita dell’arte povera di Celant. L’avevamo concepita noi tre, io, Pino e Jannis, quella esposizione antesignana, rivoluzionaria. Ebbene, Kounellis mai si batté per questo, anche per non inimicarsi Celant.
D’altra parte, nello svolgimento delle vicende artistiche di quegli anni, Roma rispetto a Torino può vantare una coppia d’assi: uno per l’appunto è la mostra “Fuoco Immagine Acqua Terra”, che precede l’arte povera di qualche mese, l’altro è il garage, spazio in sé rivoluzionario, con la ciliegina della mostra dei cavalli. In entrambi i casi Kounellis è protagonista assoluto, eppure mi ha lasciato solo nella battaglia.
Per fortuna, faticosamente, la stiamo vincendo lo stesso.
GAA: Lei ha rivoluzionato il ruolo dello spazio espositivo quando nel ‘68, dopo la drammatica morte di Pascali, ha trasformato la galleria in una palestra di ginnastica. Oggi si passa dallo spazio industriale ai palazzi storici, ma qual è la riflessione da fare sulla contemplazione dello spazio all’interno delle gallerie?
FS: In effetti, la mostra a cui lei accenna, “Ginnastica mentale”, si inaugura soltanto a un mese di distanza dalla morte di Pascali. E’ stato il mio modo di reagire a quel lutto crudele, devastante. Così ho rotto gli indugi. C’era in me l’ambizione del creatore e avevo individuato nello spazio espositivo il terreno fertile per esprimermi. Già il mare bianco di Pino, sin dalla sua prima personale a l’Attico, così perentoriamente invasivo, mi aveva fatto intuire una dimensione della galleria nuova rispetto all’opera che si espande. Un contenitore meno ingessato, meno passivo, più vivo e dinamico. L’incontro con Simone Forti mi aveva confortato in questo. Dunque “Ginnastica mentale” rappresenta il passaggio dalla galleria contemplativa alla galleria performativa-installativa. Gettandomi dall’alto di un attico di Piazza di Spagna a capofitto in un garage underground di via Beccaria avrei potuto rompermi facilmente l’osso del collo. Ma non era un salto nel vuoto, bensì un azzardo calcolato. E fu un balzo storico.
Oggi dubito che lo spazio espositivo rivesta l’importanza che ebbe allora per un gallerista. Le sue preoccupazioni sono di altra natura. Può scegliere a piacimento palazzi storici come capannoni industriali, secondo i suoi gusti e le varie sedi. Da quando sono entrati in lizza i musei d’arte contemporanea, molti creati da architetti che rivaleggiano con gli artisti, lo spazio espositivo delle gallerie private è irrilevante.
Per quanto mi riguarda, da circa dieci anni, mi sono creato un teatro con tutti i crismi in galleria, tribunetta di 30-35 posti, palcoscenico, sipario, che funziona per gli spettacoli che metto in scena con mia moglie Elsa Agalbato, ma anche per le mostre. Sono a posto così.
GAA: Qual è stata la decisione più dura che ha dovuto prendere come direttore artistico?
FS: Direi proprio la rottura con Kounellis.
GAA: Come è nata l’intuizione di organizzare il Festival Danza Volo Musica Dinamite e invitare artisti del calibro di Simone Forti, Joan Jonas, Charlemagne Palestine, Terry Riley, La Monte Young, Philip Glass, Steve Paxton e tanti altri?
FS: Fu decisivo l’incontro con Simone Forti, conosciuta qualche giorno dopo la morte di Pascali. E’ stata lei a introdurmi alla musica e alla danza che spopolavano nell’underground newyorkese.
Quando mi sono trasferito nel garage sapevo di avere in mano lo spazio giusto per ospitare le performances di questi musicisti e danzatori, che invece a New York non si trovavano in sintonia con le gallerie arroccate nei grattacieli e disinteressate all’effimero.
GAA: Chi sono secondo lei gli artisti italiani più rappresentativi di oggi?
FS: Non saprei, sinceramente.
Che ricordo ha di Germano Celant e della querelle sull’atto di nascita dell’Arte Povera?
FS: Qualcosa al riguardo le ho già detto. Posso aggiungere questo. Germano Celant è stato per me un avversario. Lui usava l’arma della censura, cinicamente. Io l’attacco frontale, a viso aperto. Ci siamo scambiati colpi anche bassi. Ma, come scrissi anni fa su un libretto pubblicato da Scheiwiller, “vuoi vedere che son quei colpi sotto la cintura che fanno sì che il rapporto ancora dura?”.